La vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti mette pesantemente in discussione le politiche ambientali americane e obbliga i Paesi europei a una seria riflessione su tempi e modi del loro Green deal. D’altronde, da diverse settimane, in Europa stanno emergendo perplessità e critiche nei confronti dell’impostazione voluta dalla Commissione da parte di imprenditori, manager, esperti dei vari settori e persino da quegli stessi politici che l’hanno voluta. Solo per restare in Italia, ricordo gli interventi del presidente di Confindustria Orsini, di Cingolani (Leonardo), di Tronchetti Provera (Pirelli), di Descalzi (Eni), di Artusi (Federauto), dell’ex commissario Gentiloni e persino dell’ex presidente Romano Prodi, che hanno bollato con parole molto chiare e spesso dure le conseguenze delle scelte europee.
La presa d’atto non è nei confronti del cambiamento climatico, che è innegabile e che ci obbligherà ad adattare i nostri sistemi e il nostro stile di vita, anche per una ragione etica oltreché opportunistica, pur dovendo ancora capire quanto questo è causa dell’azione dell’uomo e quanto dei naturali cicli climatici. La presa d’atto è che il rapporto costi/benefici di queste politiche è spropositato. I numeri parlano chiaro. Nei primi 50 Paesi più inquinati del mondo non ce n’è nessuno europeo, nei primi 60 c’è solo la Grecia; l’intera Unione europea è responsabile soltanto del 7,3% delle emissioni globali di CO2.
Non serve essere un esperto per capire che, se anche noi europei smettessimo completamente di produrre e di consumare, nel 2050 la situazione del pianeta non sarebbe granché migliorata; anzi, paradossalmente, rischierebbe di essere peggiorata, perché più spostiamo le produzioni verso quei Paesi che hanno poche o nulle attenzioni e regole per la tutela dell’ambiente, più cresce l’inquinamento globale. Infatti, nel 2023 Cina e India hanno avuto una crescita tendenziale dell’inquinamento rispettivamente del 4% e dell’8%, e il -7% dei Paesi europei non ha permesso neppure di compensare tali crescite.
A fronte di questi minimi benefici, sono davvero spropositati i costi che i cittadini e le imprese si trovano, e sempre più si troveranno, a dover sostenere: case, auto, trasporti, energia, processi di riconversione produttiva, abbandono di talune coltivazioni e allevamenti, limiti e oneri per tutti, solo per citare le cose più dibattute. Senza illuderci che gli strumenti finanziari messi in campo per sostenere la transizione, il Just Transition mechanism e il Social climate fund, possano avere risorse adeguate, perché l’UE non ha i fondi necessari per finanziare questo cambiamento epocale e tantomeno per far fronte agli effetti socio-economici negativi che produce.
Dunque, se anche gli Stati Uniti modificheranno drasticamente le loro politiche ambientali, l’Europa rischia di rimanere sola e la riduzione di quel 7,3%, che non potrà comunque essere azzerato, sarà ininfluente sul cambiamento climatico globale. È quindi necessario e urgente un cambio di paradigma: niente scelte drastiche, che penalizzerebbero la sostenibilità economica e sociale delle nostre comunità, e una molteplicità di misure puntuali e intelligenti per modificare comportamenti e caratteristiche dei nostri contesti, a iniziare da quelli urbani.
Qualche esempio senza ovviamente pretesa di esaustività. Si può continuare sulla strada delle energie rinnovabili, trovando però un equilibrio con la sostenibilità economica e territoriale; riempire di fotovoltaico i campi che servono per produrre alimenti o impiantare le 3800 pale eoliche che servirebbero per far funzionare l’acciaieria di Duisburg sono cose che non si possono fare, si possono invece sviluppare gli small modular reactor come sta facendo Leonardo. Si può supportare, non obbligare, la scelta dell’auto elettrica come stile di vita ma anche come occasione di risparmio quando la si ricarica in casa con l’energia prodotta dai pannelli solari. Si può investire sulla rigenerazione dei contesti urbani non solo per migliorare l’efficienza energetica degli edifici, ma anche per rinaturare gli spazi pubblici e privati, per fare spazio alla mobilità sostenibile, per migliorare il trasporto pubblico ecosostenibile, per ridisegnare la rete dei servizi in funzione della minimizzazione degli spostamenti veicolari dei residenti. Si possono usare le tecnologie per rendere le città vivibili e sostenibili al contempo, si pensi agli strumenti di energy e building management, al cemento e all’asfalto che assorbono lo smog, all’illuminazione e alla climatizzazione smart che si attivano con il movimento.
La cosa più intelligente di tutte è però quella di educare i cittadini alla corresponsabilità e alla co-partecipazione, perché solo un grande patto con le persone può permettere il raggiungimento di obiettivi efficaci e duraturi. Anche per questo motivo, le imposizioni che danneggiano i cittadini sono sicuramente la scelta sbagliata.
Francesco Manfredi è pro rettore dell’università Lum e professore ordinario di Economia aziendale
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