Linguaggio come ponte tra stimolazione ambientale e sviluppo cognitivo. Se il linguaggio si impoverisce, se le persone leggono meno, parlano in modo meno articolato, pensano in termini meno strutturati, anche l’efficacia del pensiero e le capacità cognitive possono risentirne. In quest’ottica, ci si può chiedere se la valorizzazione e l’uso del dialetto possano avere effetti positivi sullo sviluppo delle capacità espressive e sul pensiero critico.
Le ragioni per dare una risposta affermativa a tale domanda sono molteplici, a partire dalla ricchezza culturale e linguistica che il dialetto incarna: esso è il depositario della storia, della cultura e delle tradizioni di un territorio. La sua conoscenza permette una connessione profonda con le proprie radici culturali e favorisce un uso del linguaggio più ricco e variegato, potenziando le proprie capacità di esprimersi in modo articolato e sfumato.
Numerosi studi neuroscientifici dimostrano che il bilinguismo, anche nella forma dialetto/lingua standard, potenzia le funzioni cognitive superiori: memoria di lavoro, flessibilità cognitiva, pensiero astratto e capacità di risoluzione di un problema. Conoscere e usare più varietà linguistiche stimola il cervello a confrontare, analizzare e sintetizzare informazioni provenienti da contesti diversi, rafforzando il pensiero critico e l’agilità mentale.
Ovviamente, è necessario bilanciare l’uso del dialetto con la padronanza della lingua standard; non deve diventare un ostacolo all’apprendimento dell’italiano, che resta imprescindibile per la comunicazione formale, l’istruzione e il contesto lavorativo. Ma quando il dialetto è valorizzato a fianco dell’italiano, si crea un ambiente linguistico poliedrico: un ecosistema in cui i parlanti imparano a passare da un registro all’altro a seconda del contesto, arricchendo la propria capacità di adattamento e versatilità comunicativa. Del resto, la lingua italiana stessa è nata e si è evoluta a partire dalle parlate dialettali. Dopo la “costruzione” dantesca, molti dialetti hanno continuato ad arricchire l’italiano standard con termini che oggi usiamo quotidianamente. Dall’area meridionale provengono parole come: babà, caciara, guappo, iettatura, lampascione, lazzarone, mozzarella, picciotto, pizzicare, scugnizzo, sfizio, tarantella, traccheggiare, zangola. Ma anche il Centro e il Nord non sono da meno: il ciao (di origine veneta); il risotto (dal lombardo); papà (da alcuni dialetti emiliani e romagnoli); panettone (dal milanese); carasau e malloreddus (dalla Sardegna).
Se l’italiano fosse privo dei tanti termini dialettali oggi integrati, sarebbe una lingua meno evocativa, più povera e monotona. Il suono delle parole dialettali può evocare immagini e sensazioni che i termini standard non riescono a suscitare. Molti di questi esprimono concetti con una ricchezza di sfumature difficilmente rendibile altrimenti. La perdita di questa variabilità renderebbe la lingua meno versatile.
Della questione se n’è occupato anche il Consiglio d’Europa: la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie, approvata a Strasburgo, aperta alla firma degli Stati membri il 5 novembre 1992 (entrata in vigore il 1 marzo 1998), non solo invita a tutelare e promuovere queste lingue, ma le riconosce anche come strumenti fondamentali per la coesione sociale e il pluralismo democratico, nella considerazione che le lingue regionali o minoritarie fanno parte del patrimonio culturale europeo e la loro tutela e promozione contribuiscono alla costruzione di un’Europa fondata sulla democrazia e la diversità culturale.
In Spagna, il riconoscimento del catalano, del basco e del galiziano come lingue co-ufficiali, anche in ambito scolastico e amministrativo, rappresenta un modello di integrazione linguistica dove la lingua locale assume piena dignità accanto al castigliano. Lo stesso accade in Svizzera, dove il romancio, parlato da una minoranza, è una delle quattro lingue ufficiali.
In Italia, pur mancando la piena ratifica della Carta, la Legge n. 482/1999 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche), successivamente modificata con la legge n. 231/2016, ha rappresentato un passo avanti nella tutela delle minoranze linguistiche storiche. Alcune Regioni, come la Sardegna, il Friuli-Venezia Giulia, la Valle d’Aosta e il Trentino-Alto Adige, hanno avviato progetti scolastici che integrano le lingue locali nei percorsi educativi. Tuttavia, i dialetti italiani, pur diffusi e vitali, non godono dello stesso livello di riconoscimento, poiché spesso non vengono classificati come “lingue minoritarie”, ma come “varietà subalterne” dell’italiano.
In questo scenario, appare necessario e auspicabile ripensare il ruolo del dialetto nella scuola italiana, non come retaggio folclorico o nostalgico, ma come strumento formativo e cognitivo. L’adozione di un curriculum plurilingue, che integri le lingue locali accanto all’italiano e alle lingue straniere, può arricchire il percorso educativo sotto molteplici aspetti: Espressività e creatività; consapevolezza linguistica e confronto tra codici; Conoscenza del territorio e delle radici culturali; Inclusione e valorizzazione delle identità. L’uso del dialetto in attività narrative, teatrali, poetiche o musicali consentirebbe agli studenti di sperimentare una gamma espressiva più ampia e autentica; il dialetto, con il suo lessico colorito, le sue immagini vive e i suoi ritmi particolari, aiuterebbe a costruire un rapporto personale con la lingua, stimolando la fantasia e la capacità comunicativa. Studiare e utilizzare il dialetto in classe offrirebbe l’opportunità di riflettere sulle regole del linguaggio, confrontando fonologia, morfologia, lessico e sintassi del dialetto con quelle dell’italiano, svilupperebbe una maggiore consapevolezza metalinguistica, fondamentale per potenziare sia le competenze linguistiche sia il pensiero critico, dacché Il dialetto è un veicolo diretto di memoria collettiva, di saperi locali, di esperienze comunitarie. Attraverso la lingua si trasmettono tradizioni, proverbi, racconti orali, modi di dire che incarnano una visione del mondo. Inserire il dialetto nel curricolo scolastico significherebbe anche promuovere un’educazione civica radicata, capace di far sentire gli studenti parte attiva di una comunità storica e culturale, contribuendo anche a rafforzare l’autostima degli studenti che lo parlano abitualmente in famiglia, e a contrastare pregiudizi linguistici ancora diffusi.
L’uso consapevole del dialetto, accanto all’italiano, non solo arricchisce la lingua, ma forma cittadini più flessibili, creativi e radicati nella propria identità culturale. La sfida è utilizzare questa ricchezza come risorsa educativa e sociale, mantenendo una base comune che faciliti il dialogo e la coesione. Valorizzare il dialetto non significa contrapporlo all’italiano, ma inserirlo in una visione integrata del linguaggio, in cui ogni codice comunicativo diventa occasione di crescita, confronto e riflessione. Un sistema educativo aperto e inclusivo dovrebbe saper accogliere anche le voci “minori” della lingua, perché è proprio nella molteplicità delle voci che si forma un pensiero critico, libero e consapevole.