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Il ddl popolare per tenere l’Italia unita

Gli estensori della proposta di riforma costituzionale di iniziativa popolare sull’autonomia differenziata hanno avuto chiaro che una legge ordinaria che tentasse di mettere freni alla sciagurata “secessione dei ricchi” non sarebbe stata sufficiente: era indispensabile modificare gli articoli della Costituzione. Una cosa che la propaganda leghista e di destra non sottolinea (anzi!) è che le regioni possono chiedere, ma Governo e Parlamento non sono obbligati a concedere. Si sente spesso dire: l’autonomia è in Costituzione, si deve perciò attuare! Niente di più falso. Le Regioni chiedono, Governo e poi Parlamento decidono. Questo, non altro, è scritto in Costituzione. Una proposta radicale, spettacolare, di abolizione tout-court del titolo V, sarebbe magari una proposta di grande impatto. Tuttavia, appariva poco realistico il cancellare venti anni di applicazione del titolo V, che hanno cambiato in profondità gli assetti politici e istituzionali, oltre che modellato gli apparati pubblici centrali e periferici. Una proposta in tal senso sarebbe stata di bandiera per alcuni, ma non avrebbe avuto concrete possibilità di essere approvata.

Quello che si poteva più realisticamente fare, e si è fatto, è stato individuare i punti di maggiore sofferenza e pericolo per l’unità della Repubblica evidenziati già nel dibattito sul regionalismo differenziato, e poi successivamente nell’esperienza della lotta alla pandemia. Una riforma chirurgica, orientata a correggere errori manifesti, e a prevenire danni ulteriori.

La forza di questo ddl a mio avviso sta in tre grossi punti. Il primo: materie non affidabili alla gestione locale. Mettere nero su bianco (siccome non è a oggi adeguatamente chiarito) che su alcune materie, di carattere e di importanza strategica nazionale, non è consentita devoluzione di poteri a chicchessia, ma deve essere lo Stato centrale a occuparsene in via esclusiva: tutela della salute e servizio sanitario nazionale; tutela e sicurezza del lavoro; scuola, università, ricerca scientifica e tecnologica; reti nazionali e interregionali di trasporto e di navigazione; porti e aeroporti civili di rilievo nazionale e interregionale; reti e ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale e interregionale dell’energia. Il secondo punto di forza è la chiarezza nelle richieste. Si stabilisce con chiarezza e con forza che la richiesta di maggiore autonomia deve essere specifica e motivata caso per caso, riferibile in maniera esplicita e riscontrabile a particolarità e peculiarità della regione richiedente. E deve essere mostrato il vantaggio, in termini di efficienza e/o di qualità e/o di risparmio, a trasferire tali potestà dallo stato alla regione richiedente. Infine la centralità del Parlamento, richiamato ad essere l’ultimo decisore in fatto di concessioni di autonomia, con ampia facoltà di discussione e modifica di eventuali accordi Stato-Regione; e ricondurre tali leggi di approvazione di maggiore autonomia al rango di leggi ordinarie che possono essere non solo discusse ed emendate, ma anche eventualmente sottoposte a referendum abrogativo.

Giuliano Laccetti – Ordinario presso l’Università “Federico II” di Napoli

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