Certo, lo scenario economico impone prudenza. Eppure non sembra ingeneroso sottolineare come al Documento di economia e finanza (Def), recentemente licenziato dal Consiglio dei ministri, manchi il coraggio indispensabile per rilanciare l’Italia, a cominciare dal Sud, una volta per tutte.
Lo dimostrano due aspetti del testo illustrato dal ministro Giancarlo Giorgetti: le poche risorse destinate alla riduzione del cuneo fiscale e la mancata previsione di misure realmente in grado di sostenere le imprese e, per questa strada, gli investimenti e le assunzioni.
Partiamo dal primo elemento. Nel Def spiccano maggiori risorse sul 2023 che il governo Meloni ha prudentemente quantificato in tre miliardi e che saranno spese per portare la crescita del pil dallo 0,9 all’1%. Sempre il governo Meloni ha annunciato che quei soldi saranno utilizzati per la riduzione del cuneo fiscale, attraverso un taglio dei contributi sociali in busta paga, a beneficio dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi. Si tratta di un segnale positivo, ma l’entusiasmo cede ben presto il passo alla delusione se si riflette su alcuni dati: in Italia ci sono 23 milioni di lavoratori, sicché tre miliardi non bastano per far sì che il taglio dei contributi sociali sia percepito nel momento in cui una parte di quegli stessi lavoratori incassa lo stipendio. In altri termini, il beneficio si tradurrebbe in pochi euro in più al mese. Ma che se ne fa un lavoratore, magari con moglie e un paio di figli a carico, di una pizza o di un pacchetto di sigarette in più ogni trenta giorni? Quando nel 2014 introdusse il bonus di 80 euro, l’allora governo Renzi stanziò dieci miliardi, più del triplo di quanto oggi prevede l’esecutivo Meloni.
L’altro aspetto riguarda le imprese. Nei suoi 12 punti, di fatto, il Def le dimentica. All’interno del testo, infatti, c’è soltanto la promessa di una riduzione dell’Ires per le imprese che assumono o che fanno determinati tipi di investimenti. Il resto è un mare magnum di generiche previsioni di aiuti contro l’inflazione e di misure per il rafforzamento della capacità produttiva. Si parla di una riduzione della pressione fiscale dall’attuale 43,3 al 42,7% nel 2026, il che lascia sicuramente ben sperare. Ma è troppo poco per un Paese in cui decenni di miopi politiche di sviluppo, burocrazia in costante crescita e continue crisi congiunturali hanno devastato quelle piccole e medie imprese che da sempre costituiscono il tessuto connettivo dell’economia nazionale.
Tirando le somme, propositi come la riduzione della pressione fiscale e il rafforzamento della capacità produttiva sono certamente condivisibili, soprattutto per quanto riguarda il Mezzogiorno. Certi obiettivi, però, vanno perseguiti con le giuste risorse e con le giuste strategie. Altrimenti rischiano di tramutarsi nell’ennesimo spot elettorale, magari utile per guadagnare qualche punto nei sondaggi o una manciata di voti in più in occasione delle elezioni, ma certo non per rilanciare un Paese che ha invece bisogno di sviluppo, prospettive e fiducia.
Raffaele Tovino è dg di Anap
Bentornato,
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