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Il carcere, lo specchio dell’anima di una società

Nell’infinito pendolo tra giustizialismo e garantismo che connota da almeno trent’anni le scelte politiche in tema di giustizia, l’argomento carcere resta sempre sullo sfondo, un po’ l’ospite indesiderato a cui prima o poi (ma meglio mai) devi prestare attenzione.

Le scelte urbanistiche, del resto, sono chiarissime e consolidano questa realtà, atteso che le carceri vengono costruite in periferia, lontano dagli occhi e dalle coscienze. E quando, invece, sono situate in zone non periferiche sono vecchi edifici, situati in periferia all’epoca della loro costruzione e poi raggiunti dallo sviluppo urbano.

Il carcere è lo specchio dell’anima di una società: se vi sono molti detenuti, se vi sono tante persone che delinquono, forse non è mera sfortuna o colpa del destino cinico e baro, ma potrebbe sorgere il dubbio che questo possa anche essere l’effetto distorto di errate scelte economiche, politiche o culturali. E se il carcere è lo specchio dell’anima della società e io società sono consapevole di questo, perché mi debbo continuare a rispecchiare nel mio errore? Meglio nasconderlo, meglio favorire la narrazione degli eterni cattivi, da punire e da isolare dal resto della società, quella sana, per cui è inutile fare investimenti: sarebbe solo denaro perso. E quel famoso pendolo contraddistingue anche gli interventi nell’edilizia carceraria.

In questi anni sono entrato in carcere decine di volte: la prima porta che si apre, la gabbiola delle guardie, i documenti da esibire, la seconda porta che si apre; il corridoio ampio, vetusto ma pulito; l’incontro casuale con qualche detenuto addetto a qualche sporadico servizio, la pulizia dei corridoi, la consegna di pacchi; il loro sguardo sempre a testa bassa, il passo silenzioso; la terza porta blindata, l’accesso alla sala riservata per gli interrogatori; il tragitto inverso, sempre eguale.

Circa dodici anni fa, però, grazie alla sensibilità del direttore del carcere e dei tanti agenti di polizia penitenziaria che ci accompagnarono, con l’Anm organizzammo una visita all’interno di un carcere ed entrammo in contatto con il mondo profondo della detenzione carceraria, i suoi abissi. La sezione femminile, la più umana, poche detenute, diversi spazi comuni, alcune utili attività: ma le celle, un tuffo doloroso nel passato, un terribile film in bianco e nero: spazi angusti, muri vecchi e decrepiti, bagni inenarrabili. Un carcere vecchio, pochi spazi comuni sia al chiuso sia all’aperto, gestiti al meglio e grazie al prezioso e inesauribile aiuto delle associazioni di volontariato. I detenuti costretti a rimanere in cella 20 ore al giorno.

E poi, infine, il girone infernale: le due celle di passaggio, nel senso di mero appoggio per i nuovi arrivi in attesa di essere smistati nelle varie sezioni, attesa che poteva anche durare tre mesi; due stanzoni di metri 4×4, con letti a castello a quattro piani, una capienza di sedici – sedici! – detenuti tutti insieme, un solo bagno, spazi inesistenti. Ogni volta che ci penso vedo quegli occhi e sento quell’odore, terribile, infiltrante, invadente, eccessivo.

Per fortuna in questi anni quel carcere è stato profondamente modificato, eliminate quelle celle, chiusa la sezione femminile, aperto invece un centro clinico di eccellenza. Resta il sovraffollamento, resta quella sconcertante sensazione di elusione dell’articolo 27 della Costituzione: la pena deve tendere alla rieducazione del condannato.

Eppure tanti studi evidenziano che solo un trattamento penitenziario volto alla rieducazione e alla risocializzazione del condannato è in grado di prevenire il rischio di recidiva, quell’entrare ed uscire dal carcere che, purtroppo, segna il destino di molti.

Marco Guida – Presidente di Sezione del Tribunale di Bari

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