La nuova frontiera del lavoro educativo è quella in cui l’insegnante, per insegnare, deve prima imparare a fare bonifici. Non ai fornitori di cancelleria, non per acquistare gessetti, ma direttamente alla scuola che la “assume”. È l’innovativa formula “stipendio alla rovescia”: lavori, prendi 900 euro, e ne restituisci 600. Un genio del marketing del precariato l’ha chiamata: “Stage di vita reale”.
Nel cuore della civilissima provincia di Foggia, alcune scuole paritarie hanno perfezionato l’arte del caporalato educativo: l’insegnante paga per lavorare, con ricevuta di umiliazione inclusa. “Ma lo faccio per i punti nelle graduatorie”, si giustifica la docente. Certo: i punti, oggi, si guadagnano come alle fiere medievali – a suon di offerte al signore locale. Perché in Italia, si sa, la cultura non ha prezzo. Anzi, ce l’ha eccome. 600 euro al mese, per essere precisi. Nel frattempo, i ministeri si interrogano sul fenomeno dell’adrenalina del “lavoro a rimborso negativo”. I malcapitati dopo una laurea, tre concorsi, due master, e anni di supplenze a decine se non migliaia di chilometri da casa, provano quell’irresistibile impulso di pagare per essere sfruttati.
La scuola paritaria, quella che dovrebbe “affiancare” la scuola pubblica, diventa in certi casi una lavatrice di punteggi: ci entri pulita, ne esci centrifugata e con un curriculum più leggero… nel portafoglio. E mentre il sistema arranca tra graduatorie, Mad, e contratti a singhiozzo, qualcuno se la ride e incassa. Dopotutto, è un modello di economia circolare: lo stipendio parte, gira, e torna al mittente. Un miracolo contabile degno di un manuale di economia… del crimine. Siamo arrivati al paradosso in cui l’insegnante non solo deve formare i cittadini di domani, ma finanziare la propria schiavitù di oggi. E lo Stato? Osserva. Con la calma olimpica di chi sa che, alla fine, il problema si risolverà da solo: perché le docenti, a forza di restituire metà stipendio, spariranno. O cambieranno mestiere.
Nel frattempo, un applauso a chi denuncia, a chi rompe il silenzio, a chi osa dire che no, l’educazione non è una tassa di soggiorno da pagare per restare in graduatoria. Perché se la scuola pubblica è in crisi, la scuola paritaria (quella scorretta) è la sua caricatura: la commedia all’italiana dove l’eroe è pagato per soffrire e l’antagonista incassa il lieto fine. Dopotutto, questa è l’Italia dell’istruzione: “Chi sa, insegna. Chi può, sfrutta. Chi denuncia, spera.”
Ma sì, in fondo è giusto così, no? Viviamo nel Paese dove il “volontariato” si è evoluto: adesso lo chiamiamo “contratto paritario”. E se vuoi insegnare, devi prima dimostrare quanto sei disposto a soffrire. E mentre gli ispettorati dormono e i ministeri compilano tabelle Excel sul “benessere dei docenti”, qualcuno continua a infilare le mani nelle tasche degli insegnanti – proprio quelli che tengono in piedi il sistema. Gli stessi che correggono compiti di notte, che si sentono dire “fate tre mesi di vacanza”, e che adesso devono pure finanziare la loro precarietà. E allora sì, ridiamoci su. Riderci è l’unico modo per non urlare. Perché ogni volta che una scuola chiede soldi a un insegnante per fargli punteggio, muore un’idea di giustizia, e nasce un’altra generazione di persone convinte che il lavoro sia un privilegio da comprare, non un diritto da difendere. Ecco, è lì che scatta la rabbia: perché l’Italia non cambia non per mancanza di eroi, ma per eccesso di rassegnati. E chi denuncia viene guardato come il matto del villaggio, mentre chi sfrutta riceve applausi per “spirito imprenditoriale”. Ma tranquilli, va tutto bene. I ragazzi continueranno a imparare dai migliori. Magari la prossima lezione sarà: “Educazione civica applicata: come farsi fregare con stile.”