L’altro giorno il mio amico Andrea mi chiedeva con un pizzico di ingenuità che la giovane età ancora gli concede quale fosse la situazione dei candidati presidente delle alleanze presidente nelle due regioni meridionali che tra qualche mese dovranno scegliere i successori di Michele Emiliano e di Vincenzo De Luca. Ovviamente, stiamo parlando rispettivamente della Puglia e della Campania, due regioni tra le più prolifiche che ciclicamente hanno fatto battezzato l’ascesa di autentici cavalli di razza della politica italiana. Al contempo, però, queste due regioni sono anche tra le più rissose e turbolente ogni qualvolta c’è da scegliere dei candidati o da costruire delle alleanze.
Negli ultimi anni, in particolare, questa tensione si è andata sempre istituzionalizzandosi diventando quasi una regola ineliminabile, tanto che anche questa volta, l’incertezza la fa padrone. Nel campo del centrodestra, dall’Adriatico al Tirreno, la battaglia dei veti e dei contro-veti stanno facendo perdere settimane e giorni preziosi, quasi come se la lezione sarda con la giubilazione di Christian Solinas per Paolo Truzzu a pochi giorni dalla presentazione delle liste non avesse insegnato nulla. Sul fronte opposto, invece, al caos si sostituisce l’autolesionismo. Il campo largo, da Napoli a Bari, è impegnato a farsi del male più del dovuto, logorandosi su chi candidare e chi invece depennare dalle liste. Insomma, si passa dal caos al harakiri in un attimo.
Dunque, vale la pena chiedersi come e perché la politica è finita in questo vicolo cieco. Fondamentalmente, sono tre le ragioni, peraltro intimamente interdipendenti tra loro, che hanno determinato questo blackout. In primo luogo, è palese che iper-personalizzazione, con tutti i suoi vantaggi e guasti che si porta dietro, sia diventata la chiave unica per fare politica a qualsiasi livello. Questa curvatura, peraltro senza freni, verso una leaderizzazione dell’agire politico incide fortemente anche sulle scelte che competono ai diversi attori. Una mutazione complessiva, che non riguarda ovviamente solo il ruolo svolto da De Luca e Emiliano o Decaro, ma che include davvero tutti, ovviamente con copioni e parti differenti. In secondo luogo, è altrettanto innegabile che il protagonismo dei singoli ha fatto risaltare la marginalità non solo dei partiti, ma di tutti quei corpi intermedi e di rappresentanza vasta che in una comunità locale erano centri di condivisione e di legittimazione anche delle scelte politiche. Un tempo questi luoghi, dai sindacati alle parrocchie, erano una parte essenziale di un tessuto eterogeneo da coinvolgere per imporre e governare una visione di città e di regione, per garantire al potere amministrativo una impronta popolare. Invece queste camere della condivisione – qui veniamo alla terza riflessione della trasformazione del contesto da tener a mente – sono scomparse e si sono trasferite sui social media diventando al più camere dell’eco a servizio di questo o di quell’altro leader. Al tempo della iper-leaderizzazione della politica, ciò che conta per conquistare lo scranno da consigliere regionale o da presidente sono reel e visualizzazioni, è la capacità di coinvolgimento dei follower. È determinante solleticarne l’emotività e l’indignazione, l’istintività e la repulsione verso l’altro che diventa il nemico da dileggiare e abbattere. Ecco, questo è il contesto dell’era digitale con il quale chi è chiamato a fare delle scelte dovrà fare i conti per non restare al palo e per continuare a essere un interlocutore credibile per i cittadini. Innanzi tutto quelli digitali.
Bentornato,
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