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Il campo di confronto geopolitico e del business dell’intelligenza artificiale

L’Intelligenza Artificiale ha smesso di essere un laboratorio di esperimenti filosofici per diventare campo di battaglia geopolitico e business strategico. E nella nuova era trumpiana, ciò sembra avvenire senza limiti e con le multinazionali al volante. L’amministrazione ha infatti smantellato le briglie normative imposte dal precedente governo Biden, offrendo all’industria tecnologica un mix di deregolamentazione, incentivi fiscali e accesso preferenziale ai dati pubblici. Il tutto servito con il contorno retorico dell’“America First”, aggiornato all’algoritmo.

Il nuovo ordine esecutivo firmato il 23 gennaio, eloquentemente intitolato Removing Barriers to American Leadership in Artificial Intelligence, che sostituisce la direttiva della precedente amministrazione del 30 ottobre 2023, “Safe, Secure, and Trustworthy Development and Use of Artificial Intelligence”, ha fatto piazza pulita dei vincoli considerati “ideologici”, preferendo un ambiente normativo in cui la libertà d’impresa pesa più della precauzione e la velocità dell’innovazione conta più della sicurezza.
Nel 2023, amministratori delegati come Sam Altman (OpenAI) ed Elon Musk (Tesla, SpaceX) avevano chiesto al Congresso maggiore vigilanza sull’Intelligenza artificiale, paventando rischi “per la civiltà” e scenari di “tecnologia fuori controllo”. Parole che oggi suonano come eco lontane. L’intonazione è cambiata e pure il copione.

La stessa OpenAI, oggi, chiede la “preemption” federale per annullare cioè le più stringenti leggi statali – come il California Consumer Privacy Act – che osano ancora parlare di trasparenza e tutela dei dati. Meta, da parte sua, ha rimosso i verificatori indipendenti di notizie su Facebook e Instagram, ovvero entità terze, spesso affiliate a organizzazioni giornalistiche o accademiche, incaricate di accertare l’affidabilità delle informazioni pubblicate sulle piattaforme, invocando un ritorno alla “libertà di espressione” – con l’accento, però, sul termine libertà, non sulla verità.

Il progetto “Stargate”, con investimenti federali nell’ordine delle centinaia di miliardi, promette un’infrastruttura americana IA da primato. Ma se l’intelligenza cresce, la vigilanza decresce: un equilibrio instabile in cui la velocità dell’innovazione rischia di superare il controllo.

L’amministrazione Trump ha inoltre mostrato disponibilità a rivedere i contorni della proprietà intellettuale. In particolare, il controverso uso di opere protette da copyright per addestrare modelli IA viene oggi spinto verso una reinterpretazione del “fair use”, ossia una deroga consentita ai diritti di copyright che, in determinate circostanze, permette di utilizzare materiale protetto senza il permesso del titolare, cercando quindi piuttosto di risolvere la questione attraverso un intervento esecutivo anziché ricorrere al giudizio dei tribunali. Un cambio di paradigma che – se formalizzato – potrebbe legalizzare lo “scraping” (tecnica di estrazione dei dati) indiscriminato di contenuti online, adottato da numerose società tecnologiche per l’addestramento dei propri modelli generativi, trasformando in “materia prima” milioni di opere altrui, senza compenso né consenso.

Nel nome della competitività con la Cina – dove modelli come DeepSeek vengono sviluppati a costi irrisori – le aziende tecnologiche americane rivendicano anche l’accesso illimitato ai dati governativi, considerandolo come fondamentale per alimentare e perfezionare i propri sistemi di Intelligenza artificiale e non perdere competitività globale.

Dall’altra parte dell’Atlantico, Bruxelles prosegue sulla strada opposta. Con l’AI Act e la rigorosa classificazione per livelli di rischio, l’Unione europea scommette su un modello di “sovranità digitale” fondato sui diritti fondamentali.

Ma questa cautela, se da un lato preserva valori costituzionali, dall’altro potrebbe trasformarsi in zavorra industriale. Le Big Tech lo sanno e, nel nome dell’“effetto Bruxelles”, temono che il modello europeo possa diventare esportabile, o peggio, imitabile.

Il rischio, sempre più concreto, è la balcanizzazione normativa del cyberspazio: un mondo frammentato dove un algoritmo può essere legale a San Francisco ma vietato a Stoccolma.
Il paradigma americano odierno sembra chiaro: un ritorno al “laissez-faire” che affida ai giganti privati non solo lo sviluppo della tecnologia, ma anche la sua governance.

Ma in una società democratica, può l’innovazione essere definita tale se concentra i benefici in poche mani mentre socializza i rischi?

Senza un robusto impianto normativo, le disuguaglianze rischiano di diventare sistemiche.
Le IA generative già influenzano accesso al credito, opportunità lavorative e perfino sentenze giudiziarie.

Chi verifica, e soprattutto, chi risponde?

Nell’arena americana, l’Intelligenza artificiale è diventata un campo di scontro tra deregulation e democrazia. Il governo Trump ha aperto la porta all’egemonia tecnologica privata. La storia insegna che le tecnologie dirompenti raramente si autoregolano. La corsa all’Intelligenza artificiale è lanciata ma lasciare che siano le stesse aziende a tracciare i confini del lecito potrebbe non essere solo un errore tecnico, ma un fallimento politico, perché quando il potere di decidere cosa è vero, giusto o utile viene delegato a un algoritmo, non vi è altri se non lo Stato a dover vegliare sui suoi effetti.

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