SEZIONI
SEZIONI
Bari
Sfoglia il giornale di oggiAbbonati

Il benessere sul posto di lavoro è diventato un autentico lusso

Era il 7 giugno 2024 quando la Cassazione stabiliva che lo stress da ambiente lavorativo tossico poteva essere risarcito anche senza mobbing conclamato. Una piccola rivoluzione giuridica che prometteva di mettere fine al regno del “se non ti va bene, c’è la porta”. Un anno dopo, facciamo il punto: cosa è cambiato davvero? Praticamente nulla. Anzi, se possibile, siamo messi peggio.

Nell’ultimo anno abbiamo assistito a una proliferazione di iniziative aziendali che farebbero invidia a un festival del benessere. Webinar sulla mindfulness, chief happiness officer che spuntano come funghi e smart working venduto come una panacea. Eppure basta grattare la superficie per scoprire che dietro la facciata del “mettiamo le persone al centro” si nasconde la vecchia cultura del risultato a tutti i costi.

È come se le aziende avessero imparato il linguaggio del benessere senza comprenderne il significato. Si parla di “work-life balance” mentre si mandano mail alle 23, si promuove la “cultura dell’errore” mentre si puniscono sistematicamente gli sbagli. Il vero capolavoro è l’arte di non vedere l’elefante nella stanza, quello stesso elefante che la sentenza della Cassazione aveva finalmente nominato: l’ambiente lavorativo può essere tossico anche senza un carnefice identificabile. Non serve un capo che urla. Basta un’organizzazione che genera stress cronico, carichi insostenibili mascherati da “sfide stimolanti”, obiettivi irraggiungibili venduti come “crescita professionale”. Eppure, un anno dopo, continuiamo a fare finta che il problema non esista. «È solo un periodo intenso», «il mercato è competitivo», «chi non regge non è tagliato». Frasi che sentiamo ripetere come mantra, mentre i dati parlano chiaro: burnout in aumento, turnover che sembra una giostra impazzita.

Intanto, qualcosa si muove. Non nelle aziende, ma nei lavoratori. La Gen Z ha inventato il “loud quitting” – licenziarsi facendo rumore – raccontando pubblicamente perché se ne vanno. Sui social spopolano i video di giovani che spiegano perché hanno mollato lavori “da sogno” che li stavano distruggendo. Questi ragazzi hanno capito una cosa che noi, generazione di fenomeni, non abbiamo compreso: la salute mentale vale più di qualsiasi stipendio.

Viviamo nell’era della trasparenza totale. Le aziende pubblicano report di sostenibilità, bilanci di genere, classifiche del “best place to work”. Eppure, quando si tratta di parlare del vero stato di salute organizzativo, scende il silenzio. Nessuno vuole ammettere che il proprio ambiente potrebbe essere problematico. È più facile organizzare un corso sulla gestione dello stress che chiedersi perché i dipendenti sono stressati.

“Chi tace acconsente”, recita un vecchio detto. Ma nel mondo del lavoro moderno, chi tace spesso sopravvive. Parlare di malessere lavorativo è ancora considerato un segno di debolezza, una mancanza di “resilienza”, parola diventata il nuovo mantra per giustificare qualsiasi abuso organizzativo. Abbiamo creato una cultura dove il disagio è normalizzato e il benessere è considerato un lusso. Dove dire “non ce la faccio” è visto come un fallimento personale, non come il segnale di un sistema che non funziona.

Un anno dopo quella sentenza il conto è salato. Il costo dello stress lavorativo per le aziende è astronomico: assenteismo, turnover, calo di produttività. Eppure continuiamo a fare finta che sia un problema dei singoli, non del sistema. Un anno dopo, la domanda resta la stessa: quando smetteremo di curare i sintomi e inizieremo a curare la malattia?

ARGOMENTI

benessere
idee
lavoro
stress
welfare aziendale

CORRELATI

Bentornato,
accedi al tuo account

Registrati

Tutte le news di Puglia e Basilicata a portata di click!