I limiti del salario minimo

Le parole di Carlo Calenda, che si è detto disposto a discutere con Elly Schlein, hanno riaperto il dibattito sul salario minimo.

Una misura che Partito democratico e Movimento Cinque Stelle ritengono indispensabile per contrastare la povertà salariale soprattutto nel Mezzogiorno. In effetti, il problema esiste: basti pensare che, a Milano, lo stipendio medio percepito da un lavoratore è pari al triplo di quello che intasca uno a Vibo Valentia; nel capoluogo lombardo, inoltre, è considerata povera una famiglia che non superi i 1.700 euro al mese di entrate, mentre a Palermo questa soglia si ferma a 1.300.

Insomma, davanti alla piaga del lavoro povero è impossibile voltarsi, soprattutto se si pensa che in alcune aree del Paese (incluse Puglia e Basilicata) c’è una vasta fetta di lavoratori che percepiscono tra i cinque e i sette euro lordi l’ora. Accade soprattutto ad agricoltura e ricettività, ma anche a edilizia e assistenza ad anziani e disabili. Ma siamo sicuri che il salario minimo sia la via maestra per combattere la povertà salariale? No o, almeno, non sembra. È vero, questa misura è prevista in 21 dei 27 Stati dell’Unione europea, senza dimenticare la direttiva comunitaria che impone ai governi di adottare politiche volte a promuovere “salari minimi adeguati”.

Non può essere taciuto, però, quanto avvenuto in Paesi che hanno “accelerato” sul salario minimo. Guardiamo la Spagna: uno studio della Banca iberica sull’incremento del 22% del salario minimo varato dal governo Sanchez nel 2019, dimostra che la prima conseguenza dell’adozione di questa strategia è stata la riduzione degli occupati legali e il contestuale aumento di quelli in nero.

Un altro grande rischio connesso al salario minimo è quello di non tener conto della produttività di ciascun settore o azienda, elemento niente affatto trascurabile in un Paese, come l’Italia, caratterizzato da una produttività stagnante almeno da 25 anni a questa parte e in un contesto internazionale, come quello attuale, segnato dall’inflazione connessa alla guerra russo-ucraina. Bisognerebbe poi intendersi, come Oscar Giannino ha sottolineato sulle colonne del Riformista, su cosa sia esattamente il salario minimo. Per Pd, M5s e Cgil esso non deve riguardare il trattamento economico contrattuale ma quello complessivo. Il che affiderebbe alla politica il compito di decidere l’intero ammontare dei salari la contrattazione, vanificando di fatto la contrattazione.Invece è proprio la contrattazione la chiave per debellare la povertà salariale. Lo conferma la stessa Unione europea nel momento in cui specifica che il salario minimo va adottato nei Paesi a bassa copertura contrattuale degli occupati.

In quelli caratterizzati da un’elevata copertura della contrattazione collettiva, le paghe sono generalmente più alte mentre più contenute risultano le disuguaglianze salariali. Quindi la strada da percorrere per evitare che in Italia, in particolare al Sud, migliaia di persone percepiscano paghe vergognosamente basse, non può che essere un’estensione della contrattazione collettiva. Meglio ancora se accompagnata da misure che stimolino la produttività delle imprese e riducano drasticamente il cuneo fiscale che attualmente erode circa il 60% dello stipendio dei lavoratori tra contributi (nella misura del 33%) e imposte (nella misura del 27). Su questo secondo aspetto, il governo Meloni si è impegnato a ridurre progressivamente e sensibilmente il cuneo entro il 2026. Basterà per migliorare la vita di milioni di italiani, pugliesi e lucani inclusi? Probabilmente no. Di sicuro, però, su misure come il salario minimo serve un dibattito serio e privo di ideologismi. Calenda, aprendo a Schlein, ha fatto il primo passo. Tocca ai leader delle altre forze politiche fare altrettanto.

Raffaele Tovino è dg di Anap

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