I lavoratori entrino nelle governance

E se i lavoratori fossero inseriti nella governance delle imprese di cui sono al servizio? L’ipotesi è tornata recentemente di attualità dopo che la Cisl ha presentato un ddl popolare che mira a inserire i dipendenti nell’amministrazione delle aziende, in attuazione di quell’articolo 46 della Costituzione che sancisce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle imprese “ai fini di della elevazione economica e sociale del lavoro” e “nei modi e nei limiti stabiliti dalle legge”.

Ma quali dovrebbero essere questi modi e limiti? Il testo presentato dalla Cisl prevede che, per le spa amministrate con un sistema dualistico, almeno un quinto dei componenti del consiglio di sorveglianza sia composto da rappresentanti dei lavoratori; per le società amministrate col sistema tradizionale, invece, si stabilisce che nel consiglio di amministrazione debba sedere almeno un rappresentante dei dipendenti. Quanto alle somme percepite dai lavoratori, esse sono assoggettate all’Irpef con l’aliquota del 5 per cento entro il limite di 10mila euro pro capite; le somme derivanti dalla partecipazione agli utili sono esentasse, invece, se impiegate per pensioni complementari o contribuzioni di assistenza sanitaria. Poi c’è il discorso della sottoscrizione di quote del capitale sociale delle imprese da parte dei lavoratori.

In questa prospettiva, la proposta è di trasformare in azioni i premi di risultato spettanti ai dipendenti o, in alternativa, di destinare all’acquisto delle azioni parte della retribuzione aggiuntiva rispetto alla retribuzione ordinaria. Non è la prima volta che simili ipotesi si fanno strada nel dibattito sulle condizioni dei lavoratori e sullo sviluppo economico e sociale di un Paese. D’altra parte, nel 1971, il congresso della confederazione generale dei sindacati svedesi decise di avviare una riflessione ad ampio raggio sulla politica salariale con l’obiettivo di collegare il salario al contributo del lavoratore alla produzione e non alla capacità o possibilità di pagare dell’impresa. Il risultato fu il celebre Piano Meidner, dal nome dell’economista che diresse i lavori, che successivamente fu abbandonato pur continuando per lungo tempo a rappresentare un prezioso “laboratorio di idee”. Anche in Italia se ne è discusso, dai tempi della Repubblica sociale, che per la prima volta riconobbe espressamente la cogestione delle imprese, all’epoca del governo Monti, quando la riforma Fornero delegò il governo ad adottare uno o più decreti volti a favorire il coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa. Anche nel caso italiano, il timido dibattito e i timidi tentativi normativi non hanno prodotto alcun risultato. Il testo presentato dalla Cisl riaccende i riflettori su una strategia che potrebbe rivelarsi utile per rilanciare lo sviluppo economico e sociale soprattutto del Sud, realizzando l’interesse comune di imprenditori e dipendenti alla prosperità dell’azienda.

È indispensabile, però, definire una cornice normativa entro la quale i lavoratori possano investire i loro risparmi o parte del salario nella gestione dell’azienda, dimostrando concretamente di credere nel progetto imprenditoriale. In quest’ottica, con riguardo all’ipotesi di un intervento normativo, si potrebbe immaginare una legge che renda la partecipazione obbligatoria oppure una normativa di sostegno che preveda incentivi fiscali per le imprese disposte ad adottare meccanismi partecipativi.

La Cisl ha il merito di aver lanciato il sasso nello stagno: ora è il momento di avviare una seria discussione su certi temi attraverso i quali passa la necessaria ristrutturazione delle relazioni industriali nel nostro Paese.

Raffaele Tovino è dg di Anap

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