I detenuti dimenticati dallo Stato

Ancora una persona detenuta si è tolta la vita, ieri, in un carcere pugliese. Stando alle prime ricostruzioni, l’uomo di 50 anni, ristretto all’interno del padiglione sanitario della casa circondariale di Taranto, si è impiccato in cella. Si tratta dell’ennesimo episodio, tristemente analogo a quello verificatosi nel penitenziario ionico, con identiche modalità, nell’aprile scorso.

Un’altra storia di sofferenza umana, che si aggiunge agli 84 suicidi avvenuti nelle carceri italiane nel corso del 2022 e agli otto già consumatisi nel 2023. A ognuna di queste tragiche notizie fa puntualmente eco l’appello di associazioni e sindacati del mondo penitenziario che denunciano le intollerabili condizioni di vita negli istituti. È giusto ricordare che il carcere di Taranto ha un tasso di sovraffollamento del 153%. Che alcune celle non rispettano i tre metri quadri calpestabili per persona, requisito minimo per considerare il trattamento come umano e non degradante. Che nell’istituto esiste perfino un nuovo padiglione agibile, con capienza da 200 posti, spazi adeguati e un servizio di videosorveglianza di ultima generazione, rimasto però vuoto per due terzi a causa della carenza di personale. Che la sezione femminile di media sicurezza è priva di un’area verde per i mesi estivi, di zone esterne per i passeggi e di spazi di socialità adeguati alle esigenze trattamentali e rieducative. Che le attività trattamentali sono ridotte al minimo per lo scarso numero di educatori e che non esistono convenzioni con enti esterni per favorire l’inserimento dei detenuti in programmi di lavoro. Che molte persone restano recluse nell’istituto nonostante le diagnosi psichiatriche gravi e che oltre l’80% dei detenuti chiede antidepressivi.

Ma occorre anche ricordare che queste inaccettabili condizioni vengono rilevate e denunciate ormai da anni. Con le visite periodiche, con la pubblicazione dei report, con la diffusione online dei dati e con gli interventi a mezzo stampa. Nonostante questo, nulla cambia. Le risorse destinate all’ambito penitenziario restano un misero capitolo delle manovre di bilancio e, nell’incapacità dello Stato di garantire un’esecuzione dignitosa della pena, migliaia di esseri umani vivono alle periferie dell’esistenza. Non basta un grido, e neppure un fiore, quando un’altra vita non c’è più.

Noemi Cionfoli è avvocata e attivista di Antigone

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