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Il paradosso dei dazi di Trump e le opportunità di affermare l’autonomia dell’Europa

Nell’epoca delle diplomazie urlate e dei tweet che fanno tremare le Borse, Donald Trump continua a catalizzare l’attenzione mondiale non tanto per la profondità delle sue analisi politiche, quanto per la spettacolarizzazione compulsiva con cui si muove nello scacchiere globale. Un modo di fare che, per molti osservatori, sfiora spesso l’ossessione egocentrica, un profilo più da romanzo distopico che da leader del mondo libero. In ogni caso, gli equilibri geopolitici e commerciali rischiano una nuova, brusca scossa, che l’Europa – Italia inclusa – non può permettersi di subire passivamente come ha spesso fatto in passato.

Negli ultimi decenni, infatti, il vecchio continente ha mantenuto un rapporto quasi reverenziale nei confronti degli Stati Uniti. Un legame che, sotto la superficie della “special relationship”, ha mostrato segni evidenti di stanchezza e squilibrio. Il rapporto commerciale e culturale con gli Stati Uniti nei decenni è stato stagnante e tossico ed ha indotto l’Europa ad una pigrizia culturale ed imprenditoriale. Non è solo una questione di dazi o export: è una questione di mentalità. L’Europa si è adagiata in un’alleanza che ha perso slancio, mentre altre aree del mondo correvano. E proprio qui sta il punto. L’eventuale ritorno del protezionismo trumpiano – tra barriere tariffarie, logiche isolate e slogan muscolari – potrebbe paradossalmente rivelarsi un’occasione di risveglio. Fino ad ora l’Unione europea ha privilegiato gli Stati Uniti, ma in futuro potrà privilegiare senza difficoltà altri mercati tipo quelli asiatici o alcuni mercati emergenti africani, che ribollono di domanda e crescita, non sono più semplici comparse nello scenario globale, sono i nuovi protagonisti. Crescono, innovano, dettano tendenze e sono affamati di qualità, design, artigianato, eccellenza: tutto ciò che l’Italia, con il suo modello produttivo unico, può offrire. Il mercato italiano, che a differenza di altri fa meno prodotti ma di qualità, ha tutte le carte in regola per diventare protagonista di una nuova stagione commerciale meno dipendente da Washington e più aperta verso il mondo.

Certo, nel frattempo, la diplomazia dovrà continuare a fare il suo mestiere. Giorgia Meloni, in quanto presidente del Consiglio, non potrà esimersi dal rispetto di un certo galateo geopolitico, nel tentare comunque un dialogo con l’amministrazione Usa, senza scavalcare la Commissione Ue. L’equilibrio tra interesse nazionale e quadro comunitario resta delicato, ma imprescindibile. Tuttavia, la storia potrebbe anche scriversi dall’interno. Potrebbero pensarci i cittadini americani a capovolgere gli equilibri trumpiani, viste le numerose proteste. I segnali che arrivano dagli Stati Uniti sono tutt’altro che rassicuranti per Trump: indagini, contestazioni, una società polarizzata che inizia a mostrare segni di rigetto verso le sue derive autoritarie. Non è escluso, dunque, che la sua parabola venga fermata prima ancora di ricominciare.

Nel frattempo, resta il tema caldissimo dei dazi. Un tema che Trump ha usato come clava politica e simbolo di forza muscolare, per proteggere gli Usa, ma il meccanismo è reciproco: anche gli altri Paesi possono fare lo stesso. Quindi la domanda è: se questa guerra commerciale giovasse agli Stati Uniti, perché non potrebbe giovare anche agli altri? La domanda è lecita. E dovrebbe indurre l’Europa a ragionare su come trasformare i vincoli in leva, le imposizioni in opportunità.

Al di là delle nostalgie atlantiche, l’Ue non può più rincorrere l’America come un partner capriccioso da cui sperare briciole di attenzione. È ora di costruire un’identità autonoma, forte, proiettata verso i nuovi poli del mondo. Il potere e le dinamiche umane, geopolitiche e geoeconomiche si comportano come i liquidi, si adattano, si insinuano, scorrono e se l’Atlantico si fa stretto, le correnti troveranno nuovi sbocchi tra l’Indiano e il Pacifico. I dazi possono essere una minaccia, certo, ma anche un catalizzatore. Perché se ci costringono a guardare altrove, magari è il momento giusto per farlo.

E allora, se l’America a guida Trump chiude la porta, si potrebbero aprire altri passaggi, forse perfino più vantaggiosi. La fine di un’era, forse, o l’inizio di un’altra.

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