Sono le vittorie schiaccianti di Bari, al Sud, e di Firenze, nel Centro-Nord, a dare il tono di questo turno di ballottaggio nettamente favorevole al centro-sinistra. Un campanello d’allarme per il governo. Soprattutto al Sud, dove probabilmente si registra l’effetto di un voto che esprime preoccupazione nei confronti dell’approvazione definitiva delle procedure per attivare il regionalismo differenziato. Fratelli d’Italia eredita insediamenti storici significativi di quella che fu Alleanza Nazionale, visibili nella risicatissima vittoria di una comunque ottuagenaria Adriana Poli Bortone, ed è un partito nazionale per definizione. Il partito di Matteo Salvini ha definitivamente fallito nel suo tentativo di farsi Lega nazionale ed è stato respinto al Sud come un corpo estraneo, cavalcato solo da un pugno di trasformisti del centrodestra che molti elettori da queste parti vedono come traditori della loro gente.
Una Forza Italia, infine, pur divisa tra la testa settentrionale (impresa e autonomi) e le gambe meridionali (pensionati e classe media impoverita) ha trovato il coraggio di manifestare una netta posizione di contrarietà sulla legge Calderoli. Sull’altro fronte, le vittorie di Campobasso, risicata, ma in una regione, il Molise, da gran tempo ormai a largo predominio di destra, e quella netta Potenza sul candidato leghista completano un quadro che, almeno per quanto riguarda i capoluoghi, appare netto come uno stop all’eccesso di baldanza del governo.
Il centrosinistra torna temibile nei capoluoghi di provincia, dove c’è più opinione pubblica, mentre ha ancora difficoltà nelle zone più rurali. Ad ogni modo il messaggio è chiaro e non è quello delle ztl dello scorso decennio: attenzione ai “do ut des” sulle spalle del Sud. Il Mezzogiorno c’è.
I dati economici sono buoni e si registra una certa effervescenza socio-economica. Ma c’è preoccupazione per il futuro, per le prossime scelte della maggioranza ora che incalza anche lo spettro di un maggior rigore di bilancio. Intanto la crescita di questo pezzo d’Italia è sorprendente. I suoi ingredienti sono un miglioramento della qualità del lavoro dovuto agli effetti del Jobs Act, le decine di miliardi di aiuti alle imprese in ogni forma, la maggiore sicurezza sociale (certo, fino agli sprechi e alle risorse a pioggia che sappiamo). Ma la componente primaria di questa crescita è in un ruolo attivo dello Stato negli investimenti pubblici e infrastrutturali, che hanno registrato una netta impennata dopo lustri di profondo rosso. Sono stati aperti migliaia di cantieri e procedono.
Insieme alla spinta dell’edilizia e a un contributo eccezionale dell’export manifatturiero e agroalimentare, e al turismo completano un momento da incorniciare, in cui pubblico e iniziativa privata interagiscono come non avveniva da decenni. Si comincia a prenderci gusto, merito anche delle clausole “quota Sud” volute da Draghi che hanno riempito il deserto chiamato ruolo dello Stato con una riserva di risorse intangibile. L’Unione europea vigila. Ma il quadro è fragile, e il sentiment positivo può volgersi al negativo se rigore di bilancio, stop all’incentivazione dell’edilizia e tagli sociali dovessero fare i conti anche con le incognite del regionalismo differenziato, mentre il Pnrr volge al termine. L’alternativa ancora non c’è, ma il governo è avvisato.