«Gioè mi dice via, via, cioè me lo dice tre volte, alla terza volta io aziono il telecomando»: così Giovanni Brusca nell’aula bunker di Caltanissetta, nell’ormai lontano 1997, spiegava come aveva provocato la deflagrazione sull’autostrada A29, direzione Capaci.
Prove pesanti come macigni, idonee a resistere ai tentativi di depistaggio, confluiranno dall’input dato alle indagini dai collaboratori di giustizia. Risultanze processuali da cui emerge perché fu ucciso Giovanni Falcone e perché fu ucciso in quel modo così “spettacolare”, insieme con la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro: la vendetta, le preoccupazioni, il progetto di terrorismo eversivo.
La vendetta animava la “cupola” per l’estenuante operato di Falcone, sia a Palermo, come giudice istruttore di quel maxi-processo che aveva per la prima volta riconosciuto l’esistenza dello stesso direttivo di Cosa nostra, sia a Roma, come direttore generale degli Affari penali, e l’istituzione della Direzione investigativa antimafia, le norme sull’ineleggibilità dei “condannati”, le limitazioni dell’uso del contante, l’introduzione dell’aggravante per i reati di mafia e l’attenuante della collaborazione. La mafia, inoltre, era preoccupata che il ministro Claudio Martelli nominasse Giovanni Falcone al vertice della Procura nazionale antimafia e che da questa posizione potesse dare corpo alle sue brillanti intuizioni sui meccanismi di intreccio tra le vecchie cosche e la finanza («La mafia era entrata in borsa», ebbe a dire). La mafia usò il tritolo perché perseguiva obiettivi di terrorismo eversivo, di attacco alla democrazia, efficacemente riassunti nelle parole del “padrino dei padrini”, Totò Riina: «Bisogna fare la guerra prima di fare la pace».
Tre ragioni alla base dei 500 chili di esplosivo. Tre ragioni che si sintetizzano in quell’indissolubile legame tra mafia e corruzione, che proprio per Falcone erano (a ancora sono) facce della stessa medaglia. Mafia e corruzione, a 31 anni da quel terribile pomeriggio, sono metastasi che ancora tentano e spesso conquistano, declinandosi tra illegalità e individualismo: chi si rinchiude nel proprio interesse capriccioso, esprimendo indifferenza alle regole, al bene comune, al rispetto degli altri, è già concettualmente mafioso; in netta opposizione alla dignità, alla solidarietà dell’etica della nostra Costituzione, quella stessa Carta che le bombe di Capaci, e 57 giorni più tardi di via D’Amelio, volevano sovvertire e che la memoria di Falcone, invece, concorre a difendere.
Giuseppe Losappio è ordinario di Diritto penale presso l’Uniba. Ha collaborato Gianluca Ruggiero, dottorando di ricerca in Diritto penale presso l’Uniba