“Repetita iuvant” affermava un antico motto romano, ma “continuata secant”. Le cose ripetute aiutano ma se si ripetono senza fine seccano. E sarebbe il caso di dirlo se gli ultimi avvenimenti fossero per ciascuno di noi soltanto una semplice seccatura.
La riproposizione di episodi come quello recentissimo del giovane studente di 27 anni dell’università di Salerno che si è gettato da un parcheggio multipiano del campus di Fisciano riporta dopo tanti anni sulla pubblica scena la centralità del suicidio. Come per il 27enne dell’università di Salerno, così per il 19enne Andrea Prospero dell’università di Perugia, il suicidio sta rappresentando il punto di fuga della prospettiva di intere generazioni di giovani. Le cosiddette generazioni “postmoderne”.
Ma in Italia non è una larga prerogativa soltanto dei giovani, quella del suicidio, siccome sono aumentati nettamente nel giro di questi ultimi tre anni altrettanti casi nell’ambiente penitenziario, dove sempre più detenuti decidono di togliersi la vita inaspettatamente. Ultimo è il suicidio del giovane 24enne egiziano nel carcere di San Donato a Pescara. Già nel 2021 i casi di giovani tra 15 e 34 anni erano ammontati a circa 3.870, rispetto all’anno precedente che erano di un centinaio in meno. Questa cifra che sembra forse il culmine registrato dalla cronologia statistica sorprende tutti noi quando scopriamo che è invece la vera norma di ogni anno. Parrebbe infatti secondo i monitor ufficiali della ricerca sanitaria che ogni anno si ripetano le stesse quantità di casi tangenti la soglia di 4mila esempi.
È evidente che si tratta di una reiteratio exempli, ossia di una reiterazione del modello che costituisce ormai una validazione attitudinale. In altre parole la coerenza casistica in cui si declina l’atto suicidiario mostra pubblicamente una affermazione di un vero e proprio “codice etico”. Un codice etico che tuttavia continua ad essere il complemento di un’altra “costituzione etica”, quella cioè più diffusa come normale quotidianità vitale che raffigura il volto dell’Occidente moderno e odierno. Ma s’è detto, c’è un forse un virus postmoderno che sta mutando i geni etici di questa nostra costituzione europea.
Il paradosso consiste allora nella coesistenza di un’etica parallela non ancora considerata e sentita come vera etica, siccome è surrogata di quella ufficiale, diremmo istituzionale, che però è percepita dai giovani in chiave meramente formale. L’etica tradizionale che ci deriva dal sostrato catechistico cristiano, quella per cui il suicidio è un reato contro la stessa natura umana, arriva alle nuove generazioni come ideale e non fattuale, inadeguata alle mutate condizioni esistenziali del nuovo millennio, impraticabile nel suo senso storico-economico , e soffocante della stessa pedanteria di una dottrina teorica ma riservata all’imitazione d’elites sociali.
Quel che dell’alta incidenza del suicidio si è cercato di razionalizzare prima nella formula dell’effetto Doppler e poi in quella dell’effetto Werther all’interno della indagine demografica, è stato poi guardato non dalla sua radice causale ma dal suo innesto sociale, adottando pertanto una vista di breve gittata sul fenomeno fortemente in crescita.
A un andamento di natura quasi epidemiologica che sta assumendo il suicidio, si è tralasciato il suo carattere decisamente recidivo, innervato della consuetudine analogica che si riveste di uno smalto che non è ideologico, ma addirittura pedagogico. Quel che sarebbe più preminente considerare è che siamo oggi con il suicidio davanti ad una analogia che fonda la pedagogia, e non a una patologia sociale che, a quanto si vorrebbe apparisse, necessiterebbe di un incentivo statale a scopo psicoterapeutico. Il cosiddetto “bonus psicologo” erogato dalle casse dell’Istituto Inps è da vedersi proprio come tentativo di edulcorare le asperità emotive da cui evidentemente, per quel disagio sociale contenuto in nuce nell’emersione sintomatica, scaturirebbe l’evento del suicidio.
Tra le cause infatti individuate del fenomeno che mostra sempre più il suo pubblico giovanile e adolescenziale, ci sarebbero quelle che in realtà dovrebbero essere chiamate “reazioni scatenanti”, e non propriamente cause, quali la depressione, l’ansia, stress, compulsività ossessiva, solitudine e isolamento sociale.
Ma questi sono i fattori che sono stati messi preventivamente in allerta dalle istituzioni contro l’epidemia suicidiaria, come cioè se il suicidio fosse un morbo da debellare come la malaria, che corrode la nostra immunità sanitaria. O forse più generalmente, si potrebbe rintracciare l’errore più ingenuo nel trattare questo fenomeno come un quesito di salute mentale.
Ma che si tratti appunto di salute mentale se ne fa menzione in un recente intervento al Senato della senatrice M5s Anna Bilotti, la quale anzi cerca di congiungere all’opinione terza istituzionale anche quella personale della sottoscritta nuova generazione.
E così affermava la senatrice tre giorni fa sul caso dello studente suicida a Fisciano: “Non mi sento titolata a parlare di quello che non so. E non lo sono stata nemmeno perché ho avuto il dubbio se fosse necessario ribadire anche in una circostanza così atroce che siamo chiamati a contrastare lo stigma che ancora aleggia attorno alla salute mentale e al luogo comune che in terapia ci debbano andare i ‘pazzi’”. Ma continua subito dopo. “La verità è che io mi vergogno di appartenere a una società in cui un ragazzo non trova un altro modo per affogare il suo malessere che togliersi la vita” e conclude nella commossa apostrofe al giovane di «scusare» tutti noi «per non capire quanto è duro il mondo per quelli normali».
Si trovano affiancate qui le motivazioni casistiche istituzionali e quelle generazionali, che si potrebbero riassumere per ciascuna in due parole chiave: salute mentale e università. Entrambe non configgono nella schiera di giovani che denunciano l’inadeguatezza strutturale delle università italiane e la frustrante concorrenza che chiunque frequenti questa istituzione è chiamato a sopportare con un gravissimo carico di pressione. La consapevolezza della strettissima possibilità di entrare nel gorgo della carriera accademica e del successo occupazionale è per un giovane amaramente nutrita dall’esponenziale abbandono degli investimenti statali nella Ricerca e nell’università. A questo si aggiungono le già preesistenti difficoltà economiche del ceto medio che uno studente deve conteggiare all’interno del suo iter curricolare e che saranno per quasi la maggiore dei casi la ragione di arresto di quel percorso professionale e personale che ha impiegato grande sacrificio. La maggior parte dei giovani al momento dell’avvio della loro vita adulta, quella cioè per la quale è invalsa la superstiziosa fiducia della laurea come strumento risolutore di qualsiasi lavoro, riceve in simultanea una contraddizione di intenti e di interessi, da una parte provenienti dall’attesa massmediale, dall’altra provenienti dalla tensione familiare, e in quel momento pregusta l’irrequietudine di un futuro a cui essi si accingono ma bendati. L’unica vera fede che appare fortemente presente nel prospetto autobiografico dei figli di questo secolo non è nella differenza della passione, ma nell’indifferenza della fortuna. È infatti questo il messaggio con cui purtroppo soprattutto l’istituzione radiotelevisiva plasma talora con più vigore ed efficacia della scuola, l’intelligenza dei futuri iscritti universitari: un lavoro che smette di essere professione dal momento che lo si può trovare soltanto per condizione e non per passione.
C’è però ancora un altro puntello che regge la fragilità di questo fenomeno dalla base, e lo si individua se ci si chiede perché moltissima parte dei nostri giovani non riesce a identificarsi come tale in età adulta senza essere iscritta per forza all’università. Specie se questa costituisce confessatamene sin da subito la più grande utopia per la libertà nella società. È una domanda a cui qualora rispondessero gli stessi giovani che ammettono il suicidio, il suicidio diverrà l’unico privilegio democratico della libertà.