A Gabriele Fava, giuslavorista di chiara fama e presidente dell’Inps, va riconosciuto un merito: quello di aver compreso quanto il sostegno al lavoro dei giovani e delle donne sia necessario non solo per alimentare lo sviluppo economico del Paese, a partire dalle aree tradizionalmente depresse come il Sud, ma anche e forse soprattutto per garantire la sostenibilità di un sistema previdenziale ormai al collasso.
Fava ha analizzato la situazione in un’intervista al quotidiano “La Stampa” che sa di manifesto politico, basato sulla necessità tanto di ampliare la base occupazionale e quanto di prevedere una immigrazione qualificata nella prospettiva del pagamento delle pensioni. I numeri sciorinati dal presidente dell’Inps, d’altra parte, lasciano poco spazio ai dubbi.
In Italia i giovani tra 18 e 34 anni rappresentano il 17% della popolazione, per un totale di circa dieci milioni. Di questi, poco meno di sette sono assicurati presso l’Inps. Che, comprensibilmente, punta ad ampliare la copertura ai restanti tre milioni e, in questa prospettiva, lancia una serie di nuovi servizi e prestazioni.
La strategia, dunque, è quella di ampliare la base occupazionale dalla quale ricavare le risorse per il pagamento delle pensioni. Qui, però, arrivano le dolenti note. Giovani e donne, infatti, scontano salari bassi e carriere molto discontinue. Sotto il primo profilo, non si può negare l’enorme diffusione del lavoro povero. Incrociando i dati di Istat e Ocse, tra 2013 e 2023 il livello medio degli stipendi degli italiani è aumentato di un misero 5%, tra l’altro a fronte di un indice armonizzato dei prezzi cresciuto di oltre 17 punti. E la Cgia di Mestre ha evidenziato le persistenti disparità tra le retribuzioni medie al Nord e quelle al Sud: basti pensare che, a Milano, un lavoratore percepisce in media 2.642 euro al mese, mentre a Vibo Valentia la busta paga supera a stento quota mille euro.
La situazione è ancora più grave per i giovani, ai quali si propongono spesso paghe insufficienti. Quanto al secondo profilo, ci soccorrono i dati Istat secondo i quali l’Italia deve fare i conti con un tasso di occupazione femminile che non va oltre il 65,5%, a fronte di una media europea che supera il 70. Se il contesto è quello appena descritto, l’ampliamento della base occupazionale, indicato come soluzione al problema della scarsa sostenibilità del sistema previdenziale, deve essere ritenuto prioritario dalla politica.
Che, coerentemente con quanto sostenuto dal presidente dell’Inps, dovrebbe, da una parte, adottare misure di sostegno dei salari e, dall’altra, predisporre i servizi necessari affinché le donne possano entrare e rimanere nel mercato del lavoro. Di che si tratta, in concreto? Per quanto riguarda la lotta al lavoro povero, occorre sostenere la produttività delle aziende e rinnovare i contratti collettivi scaduti da tempo; per ciò che concerne il lavoro femminile, invece, bisogna accelerare sul completamento e l’attivazione degli asili nido previsti dal Pnrr ed estendere l’ambito applicativo di strumenti come il congedo parentale. E, sia per i giovani sia per le donne, predisporre strumenti concreti e stabili che li accompagnino fin dal primo ingresso nel mondo del lavoro.
A tutto ciò può e deve aggiungersi il ricordo all’immigrazione a patto che, come Fava giustamente osserva, si garantisca una integrazione qualificata: per non subire i flussi occorre pianificarli e orientarli secondo i parametri della qualità, della legalità e dell’effettiva inclusione lavorativa. Quindi saranno i migranti a pagare le pensioni nostre e dei nostri figli, come qualcuno ha sostenuto in passato? Certo. Ma altrettanto faranno i giovani e le donne, a meno che politiche miopi e scellerate non continuino a tenerli ai margini del mondo del lavoro.