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Epurare l’arte, deriva illiberale: lasciate Gergiev salire sul palco

Che deve fare un artista per lavorare in pace? Firmare un’abiura? Inchiodarsi al petto una coccarda dell’ONU? Bruciare il suo repertorio perché contaminato dalla politica? C’è un che di grottesco nella pretesa di epurare l’arte in nome della morale. Una nuova ortodossia, più aggressiva di quella che voleva redimere. E se questa è la cultura del nostro tempo, allora il tempo è avvelenato. È malato. Perché chiedere la testa di un artista non è solo un atto di censura: è il primo riflesso di una deriva illiberale.

Il 27 luglio, nella Reggia di Caserta, ci sarà Valerij Gergiev. Direttore d’orchestra, grande interprete del repertorio romantico, russo, amico dichiarato di Vladimir Putin: una figura che già in passato ha sollevato polemiche. Nel 2022, all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina, fu sostituito alla Scala di Milano e boicottato da orchestre in Europa e America per la sua fedeltà al Cremlino. Ora, annunciato in Campania, ha risvegliato il riflesso pavloviano dell’indignazione. La vicepresidente del Parlamento Europeo, Pina Picierno, ha chiesto di cancellare il concerto: «I soldi pubblici non vadano a un fiancheggiatore di un regime criminale».

Il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, ha tenuto il punto – «l’arte non si censura» – ma con cautela, parlando di «rischio propaganda». In mezzo, il solito balletto italiano tra prudenza istituzionale e moralismo mediatico. L’unico a non arretrare è stato Vincenzo De Luca, che ha ricordato l’accoglienza riservata dalla regione ai profughi ucraini e ha respinto i tentativi di censura preventiva. L’arte, ha detto, non si seleziona per simpatia politica. E così Gergiev, alla faccia degli inquisitori, è rimasto in cartellone.

Non è certo la prima volta che ci lasciamo travolgere dal riflesso ideologico. Nel Novecento due giganti come Louis-Ferdinand Céline e Pierre Drieu La Rochelle sono stati a lungo esclusi dal canone per via delle loro posizioni politiche estremiste. Céline, forse il più grande scrittore francese del secolo, fu esiliato per i suoi pamphlet antisemiti: dovette fuggire dalla Francia e vivere per anni ai margini; Drieu, che si tolse la vita nel 1945 dopo la caduta del regime di Vichy, è stato accolto nella prestigiosa collana Pléiade solo nel 2012. Per decenni i loro nomi sono stati rimossi dalle università ed evitati nelle librerie, come se il silenzio sull’artista cancellasse le colpe dell’uomo. C’è una tendenza sottile, quasi infantile, a trattare la letteratura come una spilla da appuntarsi sul petto.

Leggi Pavese? Bravo, sei dalla parte giusta. Leggi Céline? Allora qualcosa in te non va, sei un fascista cattivo. È un gioco identitario, non intellettuale. E nulla è più superficiale. La letteratura non è un voto in condotta. Non milita: osserva. È la dimensione del tempo e delle cose, ciò che resta quando la propaganda smette di urlare. Può attraversare tutte le ideologie senza confondersi con nessuna. E proprio per questo ci riguarda sempre, tutti – senza bandiere – davvero. A questo punto, la posizione liberale dovrebbe essere evidente: l’artista va distinto dalla persona. Non per indulgenza, ma per rigore. È accaduto anche sotto il fascismo.

Giorgio Morandi, chiuso nel suo silenzio metafisico, ha dipinto bottiglie e vasi mentre l’Italia gridava “Duce!”. Arturo Martini scolpiva figure arcaiche e solitarie, quasi fuori dal tempo. Carlo Carrà, dopo le stagioni futuriste, si rifugiò in paesaggi interiori, in una pittura che sembrava non volerne sapere della Storia. Persino Mario Sironi, che pure fu vicino al regime, produsse opere di una malinconia cupa, attraversate da un senso tragico del destino umano. E poi Giorgio de Chirico, che continuava a costruire le sue città metafisiche come se la modernità non lo riguardasse. Nessuno di loro ha “reso servile” la propria arte. Alcuni furono celebrati, altri tollerati, ma nessuno fu davvero domato. Separare l’artista dal suo vissuto non significa assolverlo. Significa riconoscere che la sua opera può valere a dispetto di lui, o forse proprio contro di lui. Il fascismo ha cercato di incasellare l’arte nel proprio schema, ma non c’è arte che si lasci ridurre a didascalia. Alcune opere sono filtrate tra le crepe, come l’acqua: lente, inarrestabili. Così anche oggi: la musica che Gergiev dirige non è di Putin. Non gli appartiene. Appartiene a chi la ascolta.

Lasciate che Valerij Gergiev si esibisca, quindi. Lasciate che il pubblico sia libero di applaudirlo o fischiarlo. Il dovere della cultura, in una società che voglia dirsi libera, è permettere all’arte di esprimersi. Senza pretendere, senza erigere tribunali morali. Perché cancellare le voci che non ci piacciono, silenziare ciò che ci disturba, escludere chi non condivide le nostre certezze, non è forse esattamente ciò che fa il potere che diciamo di combattere? Il rischio concreto, allora, è proprio quello di assomigliare a ciò che detestiamo.

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