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Elon Musk non è Jobs. E neanche Olivetti

Elon Musk non è Steve Jobs. E alla lunga si vede. Anche se entrambi sembrano espressione dello stesso mondo hi tech, tecno-digitale, iper cibernetico. Al fondo ciò che conta è la prova del nove: qual è la considerazione che si ha dei propri collaboratori? Quale il ruolo riservato alle persone che concorrono al successo aziendale?

E qui casca Musk. Perché ha fatto il giro del mondo il messaggio indirizzato di recente ai dipendenti, in cui censura il lavoro da remoto. Si può infatti anche essere d’accordo con lui sul fatto che non bisogna abusare dello strumento. Ma è significativo che l’ordine di azzerare lo smart working sia stato da lui impartito con un messaggio impersonale, privo di possibilità di replica: con una email. “Tutti quelli che intendono lavorare da remoto – ha scritto senza mezzi termini l’imprenditore – devono essere in ufficio per un minimo (e sottolineo “un minimo”) di 40 ore a settimana, oppure devono lasciare Tesla”.

Chi non è d’accordo, insomma, si accomodi all’uscita.

Una presa di posizione che ha una forte valenza simbolica. Che venga da un innovatore con indubbie capacità preoccupa non poco. Perché i protagonisti dell’impresa eccellente, tanto più se di respiro internazionale, sono un esempio per tutti. In particolare per gli imprenditori meno attrezzati, che possono interpretare quel segnale come un “liberi tutti” da qualsiasi responsabilità sociale. Rischio che si avverte soprattutto in Italia, dove le piccole e piccolissime imprese sono il 98% tessuto produttivo. Soprattutto nel Mezzogiorno, dove il ricorso al lavoro nero, iper sfruttato e sottopagato, è una delle sette piaghe.

Musk sarà competente in tante cose, ma non nel campo delle relazioni industriali. Intendiamoci, qui non si vuol fare il panegirico del lavoro da remoto. Si ritiene però che, come tanti altri aspetti dell’organizzazione aziendale, esso possa essere regolato in sede di contrattazione fra le parti. Magari si può concordare che il lavoratore “smart” possa ricevere una retribuzione ridotta in percentuale, in considerazione del fatto che ha meno spese (di trasporto, di mensa, ecc) e che, non essendo presente sul luogo di lavoro, è impossibile disporre delle sue prestazioni in maniera flessibile. Il caso Musk quindi va considerato con attenzione. Lo ha fatto a suo modo Michele Serra nella “Amaca”, la sua storica rubrica di Repubblica. Non contento della minaccia di mettere alla porta i collaboratori “smartisti”, Musk si appresta a tagliare gli esuberi della recessione che si profila. “Mush ha inventato – scrive Serra – l’automobile che pensa e l’astronave per Marte, ma in vista di una probabile recessione economica fa esattamente quello che avrebbe fatto qualunque padrone fordista cento anni fa: annuncia diecimila licenziamenti…”.

Nel corso degli ultimi cinquant’anni abbiamo smarrito il filo aureo della cultura d’impresa concepita come compagine creativa non diversa da un’orchestra polifonica, dove ogni elemento deve suonare il suo spartito puntando alla armonia con gli altri. E’ una cultura che affonda le radici nel riformismo socialdemocratico, nel pensiero di Adriano Olivetti, nell’idea di cogestione alla yogoslava, che tanto appassionò negli anni Settanta. Nonché nel pensiero sociale della Chiesa. Presente anche nell’esempio di Steve Jobs, che mostrò di avere avuto una visione affatto diversa del rapporto con i suoi collaboratori: “Non ha senso – diceva infatti il fondatore di Apple – assumere persone intelligenti e poi dire loro cosa fare. Assumiamo invece persone intelligenti in modo che ci possano dire loro cosa fare”.

Raffaele Tovino è direttore generale dell’Anap

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