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Ecco perché lo stop al terzo mandato Ú un bene per la democrazia

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La sentenza della Corte Costituzionale, che ha azzerato le velleità di una ricandidatura di Vincenzo De Luca alla presidenza della Campania, ha ribadito in modo definitivo e inequivocabile la forza del “principio fondamentale del divieto del terzo mandato consecutivo posto dal legislatore statale con la legge numero 165 del 2004”.

Il vincolo del doppio mandato, che per tanti sembra esser diventato un totem arrugginito e privo di qualche utilitĂ  pratica, trova la sua ratio e origine nel referendum abrogativo del 1991. Il 9 giugno di 34 anni fa, la quasi totalitĂ  degli elettori, ben il 95,57% degli italiani che si recarono alle urne, chiesero l’abrogazione delle preferenze multiple per l’elezione dei parlamentari. Era il primo passo per scardinare il sistema partitocratico e quel passaggio diede la stura per una nuova stagione, che peraltro ribolliva nella societĂ  da almeno due decenni. Al tempo stesso, l’esito di quel referendum abrogativo, che portĂČ ai seggi il 62,50% degli aventi diritto, aprĂŹ le porte a una seconda riforma che da lĂŹ a poco introdusse l’elezione diretta degli amministratori locali: sindaci, presidenti di Provincia e presidenti di Regione, dal 1993 in poi, vennero scelti direttamente dai cittadini e non piĂč indicati dalle alchimie correntizie dei partiti.

Il portato di quella stagione di riforme, che piallĂČ una classe dirigente percepita come inamovibile e che aveva governato l’Italia per mezzo secolo, fu anche il vincolo del doppio mandato, proprio per evitare che le storture del passato si ripetessero.

Anzi, Ăš proprio grazie a questo meccanismo, presente nella maggior delle democrazie occidentali, che in Italia abbiamo avuto un consistente ricambio di classe dirigente. Il vincolo del doppio mandato, che negli ultimi anni si Ăš gradatamente ristretto solo ai Comuni oltre i 15mila abitanti o ai presidenti di Regione, ha assicurato una circolaritĂ  non soltanto a livello amministrativo, ma ha permesso a una generazione di amministratori di scalare velocemente la gerarchia delle istituzioni repubblicani: tantissimi sono stati i sindaci che dopo avere esaurito l’esperienza decennale nelle loro comunitĂ  hanno continuato il loro percorso politico, come consiglieri regionali, deputati, ministri e c’ù chi, come Matteo Renzi, Ăš diventato pure presidente del Consiglio. Se il legislatore non avesse previsto il limite del doppio mandato consecutivo, Ăš probabile che il ricambio dei nostri parlamentari sarebbe stato, nonostante l’onda d’urto del Movimento 5 Stelle nelle elezioni del 2013 e 2018, molto piĂč contenuta.

Eppure, nonostante queste iniezioni di linfa nelle vene della democrazia italiana, sono in diversi coloro che da piĂč parti in questi giorni adottando argomentazioni, anche alquanto fragili, considerano la sentenza della Consulta «discutibile, oltre che intimamente anti-democratica». È il caso del professore Ruben Razzante, che si chiede in un suo recente articolo come mai «un politico di professione debba poter fare il parlamentare per dieci o piĂč legislature, il ministro in dieci o piĂč governi, mentre un governatore o un sindaco di una grande cittĂ , eletto direttamente dai cittadini, debba avere necessariamente una scadenza(
), poi ci si lamenta dello scollamento tra cittadini e potere, della disaffezione alla vita politica e del verticismo nelle scelte amministrative, con candidati calati dall’alto». Senza voler polemizzare con Razzante, perĂČ, in questi ultimi tre decenni Ăš stato fin troppo chiaro che i due poteri, quello dei sindaci e dei presidenti di Regione, sono del tutto asimmetrici se paragonati a quello dei parlamentari. Siamo di fronte a due sfere di funzioni e di potere molto diversi, che Ăš assolutamente sbagliato mettere sullo stesso piano e dove per entrambi sono previsti pesi e contrappesi proprio per garantire l’equilibrio dei poteri ed evitare incrostazioni e abusi.

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