L’arresto di Giovanni Toti ha messo in evidenza il garantismo a gettone di certa destra. Soprattutto se si confronta l’inchiesta.
La vicenda in cui è coinvolto il presidente della Liguria con la canea giustizialista scatenata nelle scorse settimane contro il suo omologo pugliese Michele Emiliano, nemmeno sfiorato dalle recenti indagini condotte dalla Procura di Bari.
Per comprendere certe contraddizioni basta analizzare le parole dei leader di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia. Partiamo da Matteo Salvini. Non appena la notizia dell’arresto di Toti ha cominciato a fare il giro delle redazioni e dei social, il leader del Carroccio si è cimentato in un esercizio di garantismo: «Non mi basta l’iniziativa di un giudice per sentenziare che qualcuno a Bari o a Genova è una persona per male». Come a dire che, tanto nel caso di Emiliano quanto in quello di Toti, un’ordinanza cautelare non è sufficiente per travolgere un esponente politico. Osservazione condivisibilissima che, tuttavia, è minata dal tentativo di mettere sullo stesso piano situazioni completamente diverse. Mentre Toti è indagato per corruzione, Emiliano non è coinvolto nell’inchiesta sulle presunte infiltrazioni dei clan nella politica comunale barese né in quella sul presunto voto di scambio né in quella sui presunti appalti pilotati che hanno terremotato la politica pugliese. Perciò il garantismo di Salvini assomiglia a un opportunismo di bassa lega: più che un tentativo di svelenire il clima politico, si tratta di una furbata per minimizzare l’inchiesta su Toti.
E quell’opportunismo sfocia in aperta contraddizione quando altri esponenti di peso del centrodestra, come Giovanni Donzelli e Antonio Tajani, giocano con i distinguo per giustificare il tentativo di proteggere Toti e di massacrare Emiliano. Quest’ultimo, secondo il deputato di Fratelli d’Italia e il segretario di Forza Italia, «si è vantato di essere andato a casa della sorella di un boss mafioso». Eppure, per quella vicenda, nessun magistrato ha contestato alcunché al governatore pugliese che, anzi, domani avrà modo di fare chiarezza davanti alla Commissione Antimafia. Nel caso di Toti (che, beninteso, resta sempre non colpevole fino a sentenza definitiva) si parla invece di un arresto al quale, però, i leader del centrodestra non fanno seguire alcuna richiesta di dimissioni. Come se la questione morale valesse soltanto per gli avversari e non anche per i sodali.
Dal punto di vista culturale e politico, le conseguenze di questa ambiguità sono due. E sono gravi. La prima: il garantismo è un valore che va maneggiato con cura. Applicare la legge agli avversari e limitarsi a interpretarla per gli amici, può gratificare il proprio elettorato, ma finisce per ledere un principio costituzionale e fa sfociare nel ridicolo. La seconda: difendere un governatore e puntare il dito contro un altro a seconda del colore politico, rischia di far perdere di vista l’oggettiva crisi di cui l’istituzione regionale è protagonista ormai da diversi anni a questa parte e che può mettere in crisi gli equilibri democratici in Italia. Col premierato che il centrodestra ha in animo di approvare, infatti, il potere centrale si rafforzerà e la presenza di un “contropotere” locale forte e credibile sarà tanto più necessaria per proteggere i delicati equilibri sui quali si regge la democrazia. È delle strategie di rilancio delle Regioni che il centrodestra e la politica tutta dovrebbero discutere mettendo da parte, una buona volta, le solite indignazioni a senso unico.
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