Ecco come si può uscire dalla guerra

Donald Tusk è stato chiaro: la guerra non è più un concetto del passato e dobbiamo abituarci mentalmente all’arrivo dell’era prebellica. Difficile dare torto al premier polacco, soprattutto se si analizza l’attuale scenario internazionale, segnato da decine di scontri armati. Piuttosto, la domanda da porsi è una: come se ne esce? Quale strategia va seguita per evitare che certe tensioni deflagrino e impongano a tutto il mondo, dunque non solo all’Italia e all’Europa, costi umani ed economici da capogiro? La soluzione è un nuovo meccanismo, efficace e democratico, di gestione delle crisi. In altre parole, serve la politica.

Partiamo, come sempre, dai numeri. Secondo Crisis Group, il numero dei conflitti in corso o potenziali ha raggiunto la preoccupante soglia di 55, di cui almeno dieci già definibili come guerra o scontro armato. Ad aggravare la situazione concorre il fatto che oltre il 90% delle vittime sia costituito da civili. Insomma, lo scenario preconizzato da papa Bergoglio, che in tempi non sospetti ha parlato di “terza guerra mondiale a pezzi”, sembra essersi concretizzato. Tanto che, per decine di Paesi sparsi nel mondo, una delle principali sfide di questo 2024 sarà quella di uscire indenni dal moltiplicarsi dei conflitti.

La caratteristica principale – e, forse, più preoccupante – di questo scenario complessivo è l’incapacità della diplomazia di ricomporre le crisi. Grandi sforzi producono sistematicamente piccoli risultati, prevalentemente nel campo degli interventi umanitari, come scambi di prigionieri e la distribuzione temporanea di cibo e medicinali ai civili. La politica, però, non riesce ad andare oltre come invece riusciva a fare in passato. Basti pensare a quanto accaduto in Vietnam e in Corea, dove le diplomazie si dimostrarono capaci di raggiungere un cessate il fuoco o un accordo per la conclusione del conflitto. E quando si dice che la politica ha fallito, vuol dire che a fallire sono state sia le Nazioni Unite, incapaci di imporre le decisioni necessarie per preservare la pace, sia l’unipolarismo degli Stati Uniti, messo in crisi dal risveglio della Russia, dal “rampantismo” della Cina e dal sempre maggiore spazio che i Paesi del cosiddetto Global South hanno conquistato nello scenario internazionale.

E allora? Indispensabile è un diverso sistema multilaterale con meccanismi, più efficaci e democratici, di composizione delle crisi internazionali. Un’idea potrebbe essere anche il superamento dell’ormai antistorico diritto di veto che da decenni paralizza le decisioni delle Nazioni Unite. Così come bisogna abbandonare l’idea della difesa europea come semplice coordinamento delle difese nazionali. Sul piano industriale, ogni Stato membro dell’Unione si muove autonomamente, alimentando la competizione con gli Stati più piccoli e accrescendo la frammentazione della produzione militare; sul piano militare, il modello del coordinamento ha generato duplicazioni e sprechi nelle spese militari nazionali, con l’effetto di depotenziare la capacità dissuasiva dell’Unione europea. Questi problemi si risolvono con l’introduzione di un modello sovranazionale di difesa europea, finanziato da debito europeo e non dai singoli Paesi.

La politica internazionale, a cominciare da quella europea, è quindi chiamata a un salto di qualità. E chi crede che certe questioni siano lontane dalla realtà locale della Puglia, della Basilicata e del Mezzogiorno d’Italia, si sbaglia di grosso: se non sarà arginato in tempi brevi, il proliferare dei conflitti non farà altro che far lievitare il costo della vita, la disoccupazione e la disperazione sociale. E questo è un costo che l’Italia, il Sud in particolare, non può permettersi di sostenere.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Exit mobile version