C’è un convitato di pietra che incombe sul destino dei lavoratori. È il salario o la pensione, nel caso di chi lavoratore lo è stato sino a ieri. Insomma il lavoro in Italia non è più uno scudo contro la povertà perché esso non garantisce più un’adeguata retribuzione. Non è più nemmeno motivo di orgoglio. Anzi è fonte di preoccupazione e certo sono lontani i tempi in cui esso era un vessillo di dignità e benessere.
Viviamo un evidente paradosso o contraddizione. Aumentano i lavoratori ma diminuisce la “ricchezza” a disposizione, ossia la loro capacità di spendere e risparmiare. Cresce l’occupazione rispetto al recente passato, l’indice di disoccupazione generale si abbassa. Siamo addirittura sotto il 10%, vicini alla soglia fisiologica del 6-7%. Roba che non si registrava da tempo. Ma l’indice di attività, ossia il numero di coloro che lavorano rispetto al totale della popolazione rimane assai basso. Sotto il 50%. In numeri assoluti siamo a circa 24 milioni di occupati su una popolazione di 60. In Europa siamo al 60%. Nei Paesi più avanzati si sfiora il 70. Non consideriamo la situazione del Mezzogiorno per carità di patria: qui siamo a un terzo della popolazione.
Mancano tre milioni di posti di lavoro per colmare il divario rispetto al Centro-Nord. Non parliamo dei disoccupati che stazionano stabilmente su valori a due cifre, prossimi al 20%, e ancor meno di giovani e donne, per i quali la percentuale sale al di sopra del 30. L’unico dato che continua ad aumentare, al Sud, è quello degli “emigranti” in patria ed all’estero. La cifra oscilla tra gli 80mila e i 100mila ogni anno. Tutti giovani ovviamente.
Anzi, da qualche tempo a essi si vanno sommando anziani, genitori e parenti che raggiungono figli e nipoti per unire forze e affetti e resistere ai guasti di un salario sempre insufficiente, oltre che alle intemperie di una vita sempre più complicata. L’unica cosa che aumenta, al Sud, è la desertificazione che favorisce l’impianto di campi fotovoltaici in luogo dei campi coltivati e le foreste di torri e pale eoliche in luogo di pascoli, macchia e biodiversità mediterranea. Ma questa è un’altra storia che attiene al triste futuro delle regioni meridionali.
La questione di fondo che sottende tutti questi aspetti, trascurati dalle statistiche e dalle celebrazioni, è il livello dei salari che paradossalmente non invoglia più di tanto a entrare nell’esercito dei “produttori di ricchezza”. Anzi, in qualche caso spinge a uscirne accontentandosi di un lavoro grigio o nero magari per tenere basso l’Isee familiare e fare incetta di bonus. D’altronde la verità è impietosa. Siamo a oltre il 10% dei lavoratori che, nonostante l’occupazione, sono precipitati nella povertà. In altre parole, lavorare non basta a pagare le spese, figurarsi a mettere da parte qualche soldo o magari mettere su famiglia e fare figli. Sono lontani i tempi in cui con uno stipendio di 200-250mila lire potevi addirittura costruirti la casa e, a essere in due a lavorare in famiglia, farti una bella vacanza e risparmiare qualcosa. E sono lontani i tempi in cui uno stipendio di 2-3 milioni di lire era uno stipendio di tutto riguardo che tra i lavoratori segnava la soglia del benessere se non dell’aristocrazia. Più di recente sono giunti i tempi delle generazioni da mille euro e poi quelle dei 500 e infine delle partite Iva che scaricavano oneri sociali e previdenziali sui lavoratori costretti a camuffarsi da prestatori d’opera. L’aumento degli incidenti sul lavoro è anche funzione dei bassi salari e della scarsa produttività del lavoro che spinge a contenere le spese. Tutte le spese.
Si è alzata la voce del presidente della Repubblica, unica voce fuori del coro della retorica e della propaganda, a stigmatizzare entrambi i fatti. Incidenti e morti sul e di lavoro e insufficienza delle retribuzioni assicurate a chi lavora. E questo è il dato più preoccupante proiettato nel futuro. Fermo restando che i morti sul lavoro rappresentano una autentica vergogna nazionale, per essi si contano addirittura giornalmente i caduti. Così come quotidianamente si registra lo scivolamento del potere di acquisto dei salari. Le statistiche mostrano che vi è una timida ripresa da un anno e mezzo a questa parte. Ma non sono valori tali da rendere palpabile e significativa la svolta. Non siamo ancora all’inversione di tendenza. Il valore reale è in caduta da più o meno un ventennio. Ossia da vent’anni i salari non crescono e il loro potere di acquisto diminuisce. Siamo ancora sotto i livelli del 2008, dicono sempre le statistiche nazionali. Quelle dell’Ocse sono ancora più impietose. Non un bel risultato per una nazione che su lavoro, risparmio e investimenti aveva fondato il miracolo che l’aveva addirittura proiettata al quinto posto delle economie mondiali e che ancora le consente, per inerzia o convenienza degli alleati, di restare nel G7.
Dunque ha ben ragione il capo dello Stato a levare la sua voce sperando che essa smuova sensibilità e responsabilità di questo paese. Ne va del nostro futuro. Stiamo scivolando in basso e non basteranno storia, tradizione e prestigio a salvarci. Questo, come i nostri risparmi, è soggetto a usura e non tarderà a esaurirsi. Il basso livello dei salari impatta negativamente sul mercato interno e quindi sui consumi e in ultima analisi sul Pil che inaspettatamente ha dato segni positivi nel primo trimestre di quest’anno, crescendo di uno 0,3% che se può far felici i governanti non ci pone al riparo dai preoccupanti fenomeni macroeconomici che contrassegnano anni economia e società italiane. Non sarà uno striminzito 0,6% annuo di crescita a far volare il Pil nazionale e i salari.
Allorquando i salari erano funzione del valore creato, le analisi empiriche, ossia sull’andamento effettivo della crescita della ricchezza prodotta e dell’occupazione indotta, fissavano al 2.5-3% il livello di crescita del Pil che metteva in moto l’occupazione. Oggi siamo al paradosso che l’occupazione cresce in presenza di una ricchezza complessiva stazionaria o fiacca. Evidentemente chi entra nel mondo del lavoro si accontenta di un basso salario, mentre le imprese che domandano lavoro lo offrono al ribasso. Aggiungeteci il cuneo fiscale e il quadro è completo. I rinnovi contrattuali, da ultimo quello del pubblico impiego e pochi altri nel privato, arginano il fenomeno ma sono lontani dal rimettere in equilibrio una situazione assai precaria.
Sono due le conseguenze macroeconomiche che si producono e che agiscono nel lungo periodo. Prima fra tutte il livello dei consumi. In un periodo storico caratterizzato da guerre dei dazi, tentazioni protezionistiche, spinte autarchiche e fine della globalizzazione per come l’abbiamo sperimentata, il mercato interno torna a essere fondamentale per lo sviluppo della ricchezza nazionale, la crescita del Pil e l’equilibrio della bilancia commerciale. Nella vecchia situazione queste tre misure poggiavano sulla capacità di esportare e sui volumi delle esportazioni. Per l’Italia, in particolare, le esportazioni erano (e restano) vitali per coprire il deficit energetico, ma non consentiranno nel futuro di colmare il deficit dei consumi interni. E qui siamo al cane che si morde la coda. Come possono aumentare i consumi interni in presenza di salari che addirittura spingono in alto la soglia di povertà? Un rompicapo che ci rimanda al modello competitivo nazionale, troppo sbilanciato sui settori tradizionali a bassa produttività e a scarsa crescita come l’automotive, un tempo eccellenza e oggi in crisi strutturale.
Resta l’imperativo di far crescere il mercato interno. E qui han ragione da vendere gli Stati Uniti al netto delle follie schizofreniche del suo messianico presidente. Gli Usa, storicamente, hanno avuto consumi interni stratosferici: siamo ancora oggi a un valore che oscilla intorno al 70% del Pil. In Europa i consumi interni sono intorno al 50%, in Cina siamo al di sotto del 40. È facile trarre le conclusioni. Comunque vadano le cose e qualunque sarà la direzione che a esse imprimeranno le decisioni del Governo americano, per Europa e Italia si pone il problema di riequilibrare i consumi interni spingendoli verso l’alto. Illudersi di sostenerli con la pratica, diseducativa e fuorviante, dei bonus è la strada peggiore che non porterà a nulla anzi rischia di incancrenire la situazione. Gli stessi provvedimenti invocati a difesa delle retribuzioni minime, pur necessari e auspicabili, non sono sufficienti. Questa potrà venire solo dal cambio del modello competitivo. In altre parole, bisognerà concentrarsi sulle produzioni ad alto contenuto di valore, in grado di erogare alti salari e stipendi, abbandonando i settori a basso valore aggiunto in grado di erogare salari e stipendi assai contenuti. In soldoni bisognerà tornare a presidiare in casa le produzioni di eccellenza (le poche rimaste, ahimè), del lusso, del gusto, dell’arredamento, dell’automotive sin qui delocalizzate e decidersi a presidiare i nuovi settori a cominciare da tutti quelli che gravitano sulla digitalizzazione, sull’intelligenza artificiale, sulla connessione e il presidio delle tecnologie satellitari.
È una sfida da far tremare i polsi, ma che ormai è obbligata se vogliamo uscire falla spirale negativa bassi salari-bassi consumi-bassi redditi, ma anche per uscire dallo stato di minorità che ha portato Italia ed Europa a dipendere dagli Usa sul fronte dell’alta tecnologia a cominciare da quella spaziale, esponendosi ai contraccolpi di una presidenza messianica, suprematista, schizofrenica.
La sfida richiede due condizioni. La prima: creare finalmente un mercato interno europeo che conta su un potenziale di 450 milioni di cittadini, ben superiore al potenziale degli Usa. La seconda: spostare l’offerta di lavoro verso segmenti di alto contenuto di sapere tecnologico, umanistico e culturale, esattamente l’opposto di quanto sin qui fatto su entrambi i fronti. Il guaio è che il tempo è poco e gioca contro di noi. Una ragione di più per fare in fretta quanto non è stato fatto in tutti questi decenni. Ancora una volta è il caso di dire: auguri all’Europa e all’Italia.
Bentornato,
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