Passato il natale a tavola e il capodanno a suon di botti, non ci resta che l’Epifania prima che le feste vadano via, anche quelle di quest’anno a cavallo del primo quarto di secolo del terzo millennio. Due settimane in cui, più che in altri periodi dell’anno, la tradizione e le tradizioni reggono all’incedere del tempo e delle novità, soprattutto quelle culinarie e gastronomiche.
A tavola, da Aosta ad Agrigento, passando dalle Alpi e per gli Appennini, fino alle pianure padane e del Tavoliere ogni regione, ogni provincia e anche ogni città recita in cucina il rosario dei tempi andati tra primi grassi e secondi proteici, con tortelli e capponi e contorno di polpo e seppie, insieme a capitoni e anguille. Un lungo elenco calorico che lievita gli addomi e induce alla pennica post prandiale. Non prima di aver sgranato la posta dolciaria della giaculatoria glicemica.
È così che tavole e tavolini si affollano di cartellate e struffoli, panpepati e mostaccioli, bonet e ricciarelli, non prima però di aver osservato il sacro rito iniziale e iniziatico dell’apertura di sua maestà il dolce di Natale: quel panettone che dal cuore nordico di Milano ha occupato i deschi italiani e internazionali. Come si fa, come si serve, con canditi o cioccolato, agli agrumi o al pistacchio dal finir del secolo scorso a oggi è diventato un’icona che insieme alla tradizione coniuga l’artigiano, spingendo nelle retrovie le produzioni industriali utili ormai solo per regali aziendali da inzuppare lungo il mese di gennaio nel caffellatte o nel cappuccino. Non è Natale senza panettone artigianale, magari firmato da chef stellati con prezzi che si impennano iniettati di lievito madre e canditi a chilometro zero. Un percorso gastronomico che, come sempre accade in cucina e al ristorante, propone la sua classifica.
Come quella del Gambero rosso, bibbia italiana della cucina. Ed è qui la sorpresa, i migliori panettoni, secondo la prestigiosa testata, non sono tutti di Milano. Anzi, il più buono è pugliese, di San Marco in Lamis, sul Gargano, dove pare, spiegano gli alti gradi del Gambero, Mara Nocilla, Indra Galbo, Eugenio Marini, redattori della selezione, «succeda qualcosa di speciale. È una fucina di lievitisti con due insegne, distanti pochi passi tra loro, che impongono i loro prodotti. Anche se Il Forno San Marco, di Antonio Cera, è una spanna su con il Panterrone classico d’autore, la cui cupola michelangiolesca nemmeno con la lente di ingrandimento mostra difetti». Il panettiere garganico supera tutti e svetta su blasoni importanti della pasticceria italica.
Lo segue Cafè noir di Michele Pirro, sammarchese anch’egli, giunto a metà classifica, e poco più giù nella graduatoria ecco il terzo foggiano, quell’Andrea Barile inventore di Ablab, una pasticceria di scuola Morandin, il pastry chef di San Vincent, che propone un panettone “con tutti ingredienti italiani”. Tre indizi di dolcezza su 24, come direbbe la maestra del giallo Agatha Christie, fanno la prova che la Capitanata è la capitale del Panettone, o una delle capitali nazionali. Anche se proprio i tre chef non sono profeti in patria, visto che, ad esempio, Ablab vende i suoi prodotti in particolar modo online.
Ignorati o quasi dai conterranei, tranne che dai buongustai, i tre hanno raggiunto un traguardo che altrove avrebbero capitalizzato con un salone del panettone, un contest dei dolci di natale, una kermesse a suon di canditi e cioccolato. Un tributo a chi, pur vantando tradizioni culinarie antiche, ha inteso scommettere e gareggiare su una produzione non semplice da realizzare tra lievitazione, cottura e farcitura. Una competizione che li vede vincitori, ma anche pronti a nuovi traguardi sempre all’insegna delle calorie e delle feste che resistono proprio con i vassoi di dolci anche oltre la fatidica befana, addolcendo il rientro e la ripresa dei sopravvissuti alle tavole imbandite.
Bentornato,
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