E se usassimo le “gabbie” per stimolare i consumi?

Quello che sembrava un cavallo di battaglia della sola Lega, in realtà è un tema che sta a cuore anche a Forza Italia e Fratelli d’Italia.

Tanto che alla Camera è recentemente passato, col parere favorevole di tutto il Governo, un ordine del giorno che punta a differenziare i salari dei lavoratori in base al loro potere d’acquisto: una iniziativa che segue la presentazione di un disegno di legge attraverso il quale la Lega intende legare gli stipendi al costo della vita.

Davanti a queste due proposte, Partito democratico e Movimento Cinque Stelle si sono stracciati le vesti paventando la reintroduzione delle gabbie salariali, cioè del sistema di calcolo dei salari introdotto nel 1946 e accantonato nel 1969, e il rischio di un’ulteriore frattura tra Nord e Sud.

La questione merita grande attenzione. Se non altro perché, come evidenziato dalla Svimez, il divario salariale tra Settentrione e Meridione tocca ormai i 20 punti. Qualche esempio concreto? Secondo un’indagine condotta da applavoro.it, a Bologna un commesso ha un salario medio di 1.232 euro al mese, mentre a Bari non si va oltre i 988; a Torino un agente di commercio incassa 2.477 euro netti al mese, mentre a Bari la media è di soli 1.641; nei call center di Milano si guadagnano mille euro al mese, mentre a Bari non più di 589. Ecco perché delle proposte avanzate dal centrodestra vanno analizzate, in maniera laica, criticità e opportunità.

Partiamo dalle prime. L’ordine del giorno e il disegno di legge presuppongono che i luoghi dove si producono le merci siano gli stessi in cui esse sono vendute. Ma non sempre è così. Anzi, quasi mai. Le due proposte, dunque, non tengono conto del fatto che i costi di produzione sono sostenuti nel territorio A, mentre i salari sarebbero pagati in funzione dei prezzi di beni e servizi praticati nel territorio B. Ma che cosa accadrebbe differenziando i salari in base al luogo di vendita? Le imprese sposterebbero le produzioni lontano dai mercati di sbocco più promettenti, danneggiando così il tessuto commerciale e facendo aumentare il costo del lavoro per le aziende intenzionate invece a rimanere sul territorio.

Più saggio, come l’economista Gabriele Serafini ha magistralmente chiarito in un suo recente lavoro, sarebbe differenziare i salari in base non ai prezzi o alla variazione degli stessi, ma al valore della spesa effettuata dalle persone. In questo modo, infatti, i lavoratori sarebbero incentivati a non ridurre i consumi alla luce del loro scarso reddito attuale, consapevoli del fatto che quest’ultimo si adeguerà in un secondo momento alle loro rinnovate decisioni di spesa. Le imprese, dal canto loro, beneficerebbero di anticipatamente di un incremento delle vendite.

In altre parole, la cosiddetta gabbia salariale finirebbe per stimolare i consumi, attualmente contratti dal rincaro dei prezzi del cibo e delle tariffe energetiche, con effetti benefici per l’intero sistema economico e sociale. Ecco il tipo di approccio indispensabile per affrontare un tema delicato come quello del gap salariale tra Nord e Sud: al Paese non servono contrapposizioni ideologiche e uguaglianze forzate, ma un’analisi scientifica dei problemi e delle strategie per affrontarli.

Raffaele Tovino è dg di Anap

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