E adesso che ne sarà del Pnrr?

E ora? Che ne sarà del Pnrr? L’interrogativo sorge spontaneo se si pensa alle parole del ministro Raffaele Fitto che ha detto di ritenere “matematico” il mancato conseguimento di tutti gli obiettivi entro il 2026, senza però chiarire quali siano i progetti a rischio. Tralasciando il “difetto di comunicazione” dell’ex presidente pugliese, che con le sue frasi criptiche ha alimentato polemiche e tensioni delle quali tutti avrebbero fatto a meno, è d’obbligo una riflessione sul ruolo attribuito agli enti locali nell’attuazione del Pnrr. A cominciare dai Comuni, titolari di investimenti per 28 miliardi.

Di questi soggetti istituzionali, oltre che di Ministeri e Regioni, non è stata considerata la storica fragilità. Ed è proprio questo l’errore commesso dai governi che si sono finora alternati nella gestione del Pnrr. La debolezza di enti come i Comuni non è stata compensata da misure volte non solo a colmare le carenze di organico, ma anche e soprattutto a dotare tutte le pubbliche amministrazioni di competenze specialistiche adeguate. A nulla sono valsi gli alert lanciati dalla Svimez che ha più volte sottolineato l’inadeguatezza delle macchine comunali chiamate ad affrontare la “corsa” del Pnrr.

A questa situazione il governo Meloni ha inteso rimediare istituendo la struttura di missione che, dipendendo direttamente dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, è strettamente legata alla stessa premier. In più, Palazzo Chigi ha previsto il dimezzamento dei tempi entro i quali devono essere vagliati i vari progetti e previsto la possibilità di un commissariamento nell’ipotesi in cui gli enti locali non siano in grado di rispettare le scadenze degli interventi. Basterà quest’opera di riorganizzazione? Il rischio è che il rimedio sia peggiore del male e la Corte dei conti l’ha chiarito senza troppi giri di parole. Secondo la magistratura contabile, infatti, la riorganizzazione richiede “un’attuazione senza soluzione di continuità con gli attuali moduli organizzativi, al fine di evitare che la fase di avvio delle nuove strutture sia caratterizzata da tempistiche e difficoltà simili a quelle già segnalate con conseguenti rischi di rallentamenti nell’azione amministrativa proprio nel momento centrale della messa in opera di investimenti e riforme”.

Insomma, se è vero che l’Italia ha finora rispettato tutte le scadenze semestrali previste dal Pnrr e che non più tardi del 30 dicembre scorso ha comunicato alla Commissione europea di aver centrato tutti i 55 obiettivi fissati per il periodo giugno-dicembre 2022, è altrettanto lecito chiedersi se il Paese sarà in grado di completare tutti gli interventi entro il 2026, anche e soprattutto alla luce delle modifiche gestionali introdotte dal governo Meloni. Le perplessità non mancano e sono di non poco peso, come la Corte dei conti ha giustamente osservato. Anche perché qui ci sono in gioco due valori: la credibilità dell’Italia a livello internazionale, a cominciare da quelle istituzioni europee che hanno sempre guardato Palazzo Chigi con un certo sospetto, e il rilancio del Mezzogiorno, che non può certo prendersi il lusso di veder passare il treno del Pnrr.

Raffaele Tovino è dg di Anap

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