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Donne, meno lavoro e pensioni più basse: ecco perché serve una riforma

Tutti discutono del divario di genere nell’accesso al lavoro e nel trattamento retributivo. Giusto, anzi giustissimo. Più volte, su queste stesse colonne, il sottoscritto ha evidenziato la necessità di superare quel gap non solo per ovvie ragioni di uguaglianza sociale, ma anche nella prospettiva di un aumento del prodotto interno lordo. Più lavoro femminile significa almeno dieci punti in più di prodotto interno lordo a livello nazionale, con benefici soprattutto al Sud.

Nessuno, però, si pone alcune domande altrettanto importanti: ammesso e non concesso che una donna riesca a trovare un impiego, a conciliare i tempi di vita privata e professione e a resistere nel mercato del lavoro, a quanto ammonterà la sua pensione? Il contributo sarà più alto o più basso di quello che spetta solitamente a un uomo? E quello stesso contributo, nel Mezzogiorno, sarà più alto o più basso di quello mediamente percepito da Roma in su?

Non si tratta di domande peregrine, soprattutto se si analizzano i dati più aggiornati. Ultimo rapporto Inps alla mano, nel 2023 il divario di genere nei redditi pensionistici ha toccato il 23%, se si analizza l’importo dei contributi liquidati, e addirittura il 30, se si guarda l’insieme dei trattamenti previdenziali. Ovviamente, a sfavore delle donne.

Insomma, le pensioni del gentil sesso sono più basse. Il divario di genere raggiunge il 18% per le anticipate e supera il 30 per quelle di vecchiaia. E questo per una lunga serie di motivi che riguardano il settore privato non agricolo. Le donne, infatti, scontano una sovra-rappresentazione in comparti dove si pagano salari mediamente più bassi, una scarsa presenza in posizioni di vertice, un minor numero di giorni lavorati e una più forte tendenza ad accettare impieghi part-time. Ecco perché i loro salari sono mediamente più bassi e così anche le pensioni.

Ma come si presenta questa situazione a livello regionale? Se si considerano le prestazioni previdenziali e assistenziali liquidate nel 2023, si nota come gli importi siano mediamente più bassi nel Mezzogiorno dove i lavoratori hanno carriere piuttosto discontinue con retribuzioni e anzianità contributive generalmente più contenute. I numeri ci confortano: a livello nazionale, le prestazioni previdenziali si aggirano sui 1.290 euro, mentre quelle assistenziali intorno ai 480. Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta sono le regioni in cui, nel 2023, le prestazioni previdenziali hanno toccato i livelli più alti, superando rispettivamente i 1.400 e i 1.100 euro; a seguire tutte le regioni del Nord a eccezione della Liguria. In coda i territori del Sud inclusa la Puglia, dove i trattamenti assistenziali superano di gran lunga quelli previdenziali fermandosi a quota 1.128: peggio fa solo la Calabria.

Se poi si analizza il divario di genere per regione negli importi liquidati nel 2023, si nota come le disparità più evidenti si registrino nelle regioni del Nord, dove le prestazioni mediamente più elevate: se la media nazionale è del 27%, il Veneto si colloca addirittura al di sopra col suo 32; al Sud, invece, i valori sono più contenuti, ma comunque toccano livelli allarmanti come nel caso di Puglia e Basilicata dove la differenza tra le pensioni degli uomini e quelle delle donne raggiungono rispettivamente il 23 e il 22%.

Che cosa vuol dire tutto questo? Come gli esperti Monica Paiella, Natalia Orrù e Diego Peroni hanno osservato in un loro recente e interessante lavoro, lo scenario appena descritto rende ancora più necessarie politiche capaci di ridurre il divario di genere nel mercato del lavoro, soprattutto nelle aree attualmente meno sviluppate e cioè nel Mezzogiorno. Non si tratta solo di diminuire i divari retributivi, ma anche di garantire maggiore continuità nei percorsi professionali, perché un sistema pensionistico basato sul metodo contributivo valorizza le carriere più lunghe e continuative. Le riforme succedutesi nel corso degli anni hanno imposto un aumento dell’anzianità contributiva a tutti i lavoratori e soprattutto alle donne. Uscendo più tardi dal mercato del lavoro, le donne hanno ottenuto un vantaggio nel tasso di trasformazione del montante contributivo in rendita pensionistica. Questo beneficio, però, non basta a compensare gli effetti di carriere lavorative più discontinue e di retribuzioni più basse: qualcuno, a Roma, si è mai posto il problema?

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