Più occupazione, meno rapporti a tempo indeterminato, meno part time involontario soprattutto tra le donne: se ci si limitasse a questi aspetti, per l’evoluzione del mercato del lavoro nazionale ci sarebbe soltanto da gioire. La soddisfazione, però, cede il passo a insoddisfazione e timori se si comparano i dati italiani a quelli degli altri Paesi dell’Eurozona.
Basta questo semplice confronto, infatti, per comprendere quanti e quanto grandi siano i problemi che l’Italia deve ancora risolvere sul fronte dell’occupazione soprattutto al Sud.Nel 2023 il tasso di occupazione degli italiani tra 15 e 64 anni è arrivato a superare il 61%, con un aumento di oltre due punti per quanto riguarda sia l’occupazione femminile sia quella maschile. Eppure l’Italia resta ultima tra i Paesi europei, con una differenza abissale rispetto all’Olanda, che fa registrare un tasso di occupazione dell’82,4%, e a Malta, cresciuta di oltre sei punti tra 2019 e 2023. La quota degli occupati cresce di più persino in Grecia, protagonista di una impennata del 5,7%.
Perché succede tutto ciò? L’Italia continua a essere penalizzata dal bassissimo tasso di occupazione femminile che, pur crescendo di oltre due punti, non va oltre il 52,5%. L’Olanda è lontana addirittura 26 punti e meglio del nostro Paese, per quanto riguarda le donne al lavoro, fanno persino Grecia e Romania, rispettivamente col 52,8 e il 54,3%.
Non va tanto meglio sul fronte dell’occupazione maschile, se si pensa che l’Italia si attesta di poco sopra al 70% e che soltanto Belgio, Croazia e Spagna fanno segnare performance peggiori. Le note dolenti vengono anche dagli occupati a tempo indeterminato involontario, cioè da coloro che non hanno la possibilità di lavorare a tempo pieno pur volendolo. Su questo fronte l’Italia è quartultima con l’8,3%, nonostante un calo del numero di quei lavoratori pari al 5,3% tra 2019 e 2023. Il risultato è tutt’altro che incoraggiante, se si pensa che Austria, Lituania e Germania hanno un tasso di occupati a tempo determinato involontario pari rispettivamente a 0,2, 0,5 e 0,6%. Il problema principale, ancora una volta, riguarda le donne: qui il part time involontario, nel 2023, è ancora al 50,2% nonostante un calo di oltre dieci punti nel quadriennio di riferimento. Lontanissime, dunque, Olanda e Germania dove ad accettare un impiego part time involontario è solo l’1,7 e il 4,6% delle donne.
Insomma, non è tutto oro ciò che luccica. I lavoratori italiani sono non solo meno retribuiti, ma anche più instabili e ancora troppe donne sono costrette ad accettare contratti part time nonostante la disponibilità per impieghi a tempo pieno. Come se ne esce? Innanzitutto con i servizi. Non ci stancheremo mai di sottolineare l’esigenza di un maggior numero di asili nido: un aumento del 10% della forza lavoro, attraverso l’incremento dell’occupazione femminile, farebbe impennare il pil nella stessa misura nel lungo periodo, soprattutto in aree tradizionalmente depresse come il Mezzogiorno. Bisogna poi eliminare la cosiddetta “child penalty” nei tassi di ingresso e uscita dal mondo del lavoro, in modo tale da far lievitare il tasso di occupazione femminile del 6,5% entro il 2040, consentire un più largo ricorso ai congedi da parte dei papà e modificare il sistema di tassazione e trasferimenti che attualmente scoraggia l’occupazione delle donne. Sono queste le strategie che vanno attivate subito per migliorare significativamente le performance del mercato del lavoro. Dopodiché si potrà esultare davvero.