Lavorare e non avere la possibilità di ottenere un salario in grado di soddisfare i bisogni fondamentali per vivere una esistenza dignitosa è un paradosso del capitalismo contemporaneo. In Italia i lavoratori che sono in questa condizione sono un milione e duecentomila con un salario inferiore a 8,9 euro l’ora. A questi lavoratori in-work poor, si aggiungono i lavoratori a basso salario (low-wage worker), circa 5,7 milioni di dipendenti che guadagnano in media meno di 11 mila euro lordi annui (il salario medio in Italia è attestato a 31,5 mila euro lordi annui, un livello nettamente più basso rispetto a quelli tedesco, 45,5 mila, e francese, 41,7 mila).
La contraddizione tra la crescente espansione delle forze produttive e le difficili condizioni di vita della classe lavoratrice era stata evidenziata lucidamente da Karl Marx nel concetto di miseria crescente, definito in termini di una legge tendenziale del capitalismo, che può realizzarsi in determinati fasi e può essere contrastata da diversi fattori (chiamati controtendenze), come la lotta sindacale e le condizioni stesse del processo produttivo.
La fase di espansione del capitalismo post-bellico, fondato sul sistema fordista (grandi unità produttive strutturate su catene di montaggio) aveva reso possibile la piena occupazione e concesso maggior forza alle organizzazioni sindacali.
Le grandi lotte rivendicative tra la fine degli anni Sessanta e parte del decennio successivo, in un contesto di elevata pressione inflazionistica dovuta in gran parte a shock esogeni (crisi petrolifera), portarono in tutto il mondo occidentale a riforme che redistribuivano il reddito a favore del lavoro, determinando aumenti salariali tendenti a mantenere almeno invariato il potere d’acquisto dei salariati (in Italia il meccanismo era garantito dalla scala mobile).
Non sempre questo obiettivo fu pienamente realizzato, ma seppure la copertura non era totale, il meccanismo impediva l’impoverimento relativo di fronte alla forte dinamica inflazionistica, tipica di quegli anni. Dalla fine degli anni Settanta si è verificata una inversione di tendenza, più o meno giustificata dalla teoria della spirale prezzi-salari, cioè la causa dell’inflazione fu attribuita prevalentemente ai meccanismi di scala mobile che avrebbero indotto le imprese a ricostruire i margini di profitto scaricando sui prezzi l’aumento dei salari (fu questa la posizione sostenuta del Premio Nobel Franco Modigliani).
Riforme della contrattazione sindacale e la concertazione tra parti sociali determinano in Italia una inversione di tendenza. Tra il 1991 e il 2022 i salari reali in Italia sono rimasti sostanzialmente invariati con una crescita dell’1% a fronte del 32,5% in media registrato nell’area Ocse. Questa dinamica si è riflessa in termini di quote distribuite, con una caduta della quota dei salari sul Pil (oggi al 40%, nella metà degli anni si attestava al 72%) e una crescente quota dei profitti (ormai stabilizzata su valori rispettivamente del 60%). In Italia è andata peggio che in altri paesi: se, infatti, si fa riferimento alle stime Oecd per 59 Paesi, nel periodo 1975 – 2012 la quota di Pil destinata al lavoro è passata dal 64% al 59 %, una diminuzione più contenuta di quella subita dai lavoratori italiani.
La riduzione della quota di prodotto assegnata al lavoro, secondo alcuni economisti, è spiegata dalla riduzione del prezzo relativo dei beni capitali, effetto della rivoluzione informatica, che incentiverebbe l’adozione di processi produttivi che impiegano maggiore quantità di capitali rispetto al lavoro. In altre parole macchine sempre più sofisticate e relativamente poco costose sostituirebbero la componente umana. L’impiego di forza lavoro qualificata nella produzione industriale tende quindi a diminuire mentre aumentano i lavori che non richiedono specializzazione, per lo più nel terziario di mercato (commercio, turismo, servizi alla persona, trasporti) e che conseguentemente sono retribuiti a basso salario. Questa tendenza generale del capitalismo contemporaneo è stata in Italia acuita dal processo di deindustrializzazione.
Il risultato è un mercato del lavoro distorto che privilegia la domanda di lavoro non qualificato. Secondo un’analisi della Fondazione per la Sussidiarietà, nel 2022 sono state offerte oltre 811.000 posizioni per personale non qualificato, pari al 16% del totale. La percentuale di questi lavori rispetto al totale si attestava nel 2021 al 14%. La maggior parte della domanda di personale non qualificato non richiede un titolo di studio specifico (81% dei casi) né esperienza specifica (60% dei casi). La distribuzione geografica è omogenea, con il Nord Ovest , con il 30% delle richieste, seguito dal Nord Est con il 25%, il Sud con il 24% e il Centro con il 21%.
Le posizioni più ricercate nel 2022 sono state quelle nei servizi per la pulizia di uffici ed esercizi commerciali, con 345mila posti offerti. Seguono gli addetti all’imballaggio e al magazzino con 188mila posti. Le previsioni indicano che la domanda di personale non qualificato aumenterà ancora e il tema di un salario minimo per garantire condizioni di lavoro dignitose non potrà più essere eluso.
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