Nell’anno di grazia 1996 Fabrizio De Andrè e Ivano Fossati pubblicano Anime Salve; sarà il tredicesimo e ultimo album di Faber. E la luce – il nitore dei testi, arrangiamenti unici – è quella delle cose ultime. Non sono un cultore di musica ma forse solo “La buona novella” riesce a contendergli la vetta della sua produzione artistica.
Nell’incanto dei brani, Disamistade ha una sua autonoma bellezza: vive di luce propria seppure inserita nel percorso delle anime salve; solitarie, libere e, proprio per questo, salve.
I cultori del diritto hanno letto e approfondito la Disamistade di Orgosolo, lo scontro anche giuridico, datato 1905–1917, in cui il codice della vendetta non solo sopravvisse ma consentì agli imputati di essere assolti. Questi ricordi si sono affastellati quando diversi, tanti sms mi richiamavano l’appuntamento con Roberso Saviano su Rai Tre. Ho visto e rivisto la puntata ma non sono riuscito a vederla per intero. Non ce l’ho fatta. Non ce l’ho fatta perché quella “macchie di lutto rinunciate all’amore” le ho conosciute, incontrate; quell’aria l’ho respirata. Non ce l’ho fatta. La lettura di Saviano è corretta specie quando desacralizza un contesto che da tante parti si indulge ancora oggi – un po’ a mo di brand alla cogliona – a considerarlo mitico, magico, magnetico. È soltanto feroce. Banale come solo la ferocia sa esserlo. E comunque ci aveva visto giusto Faber, perché quella rinuncia all’amore resta un qualcosa di poco indagato, poco raccontato specie se riferito alle seconde, terze generazioni che hanno il sacrosanto diritto all’oblio ricercando, tanti e tante, “un mondo di vivere senza dolore”.
Qualche giorno dopo, ruminando questi appunti e la colonna sonora, ho ripreso tra le mani un libro che temevo di aver perso nei meandri dei comodati a titolo gratuito ad inadempimento sistematico. L’ho ritrovato miracolosamente intonso: “Sciascia dal Gargano alla Noce”, con 30 fotografie di Guy Michel Bassac, a firma di Antonio Motta. Il viaggio è un percorso della passione per lo scrittore e per i suoi luoghi: una specie di immedesimazione organica, tipica di gran parte della letteratura isolana e, forse, ancora più dolente e marcata in Bufalino. E me lo sono immaginato Sciascia, in giro tra queste pietre, scansando gli sguardi obliqui che sono uguali ovunque. E se fosse passato a vergare un registro, lasciando qualcosa di suo, avrebbe indugiato sul cuore della sua analisi e del suo lavoro che non era la mafia ma la verità e ricordarci che «La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità».