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Dal governo passi avanti sui migranti: l’Ue farà lo stesso?

Ha avuto ragione l’ex ministra Elsa Fornero, in un’intervista resa al direttore Ciriaco Viggiano, a evidenziare le contraddizioni che lacerano il governo Meloni, a cominciare da quelle in materia di gestione dei flussi migratori. A tal proposito, però, stavolta vogliamo cogliere il lato positivo della contraddizione: da una parte, l’esecutivo si divide sull’introduzione dello ius scholae e per certi versi è ostaggio di chi, in passato, ha chiuso i porti ai disperati in fuga da guerre e fame; dall’altra, quello stesso cambia ora le regole per l’ingresso dei migranti da lavoro in Italia, prevedendone un numero più consistente.

Come se, a un tratto, il centrodestra nazionale avesse smesso di strumentalizzare il tema dell’immigrazione a fini elettorali per cominciare ad affrontarlo in una chiave più realistica e pragmatica, mettendo davanti a tutto non il consenso ma le esigenze delle imprese. Bene, dunque, ma non è detto che basti. Le norme al vaglio di Palazzo Chigi prevedono un aumento dei click day, nell’arco dell’anno, per i vari settori produttivi; la precompilazione delle domande, in modo tale da calcolare esattamente i fabbisogni reali di lavoratori stranieri per le imprese; un tetto massimo alle domande per ciascun datore di lavoro; digitalizzazione dei contratti e controlli automatizzati.

La ratio di queste norme l’ha ben spiegata il sottosegretario Alfredo Mantovano: bisogna correggere “anomalie preoccupanti” che consistono soprattutto nel rischio di infiltrazioni dei clan nella gestione della domanda di lavoratori e nelle richieste di personale straniero che, soprattutto al Sud, eccedono la capacità di assorbimento da parte del tessuto produttivo.

Obiettivi condivisibili ai quali si aggiunge la nota più positiva di tutte: il governo Meloni non vuole trovarsi, come nel recente passato, nella condizione di chi, avendo previsto un numero di ingressi di lavoratori stranieri non in linea con le esigenze delle imprese, si trova successivamente costretto ad aggiungere 40mila posti.

D’altro canto, che i migranti siano una risorsa o addirittura una necessità lo confermano i dati relativi alla Puglia. Qui, in sei anni, sono stati persi circa 30mila operai agricoli. Eppure il contributo offerto dagli stranieri nei campi è decisivo: un prodotto agricolo su quattro è raccolto da braccianti non italiani, senza dimenticare che nei terreni coltivati e nelle stalle pugliesi sono impegnati più di 36mila persone provenienti da Romania, Albania, Marocco, Senegal, Bulgaria, Polonia e Nigeria.

A livello nazionale, invece, servono tra gli 80 e i 100mila lavoratori, come Massimiliano Giansanti, neo-presidente del Copa, ha sottolineato nei mesi scorsi.E allora la svolta sui migranti può essere giudicata positivamente. In questa materia, comunque, si può e deve fare di più. In che modo? Coinvolgendo, per esempio, i Paesi di origine dei lavoratori – a cominciare da India, Sri Lanka e Stati nordafricani – nella loro formazione, in modo tale da favorire l’afflusso di manodopera qualificata. Ciò che serve più di ogni altra cosa, comunque, è una politica europea organica e di lungo periodo in tema di immigrazione. Il che significa superare i calcoli politici dei singoli Stati, soprattutto nel momento delle elezioni, e individuare una serie di regole comuni in materia di immigrazione da lavoro. E, più in concreto, rovesciare quella narrazione in base alla quale garantire il benessere economico al territorio passa necessariamente per una riduzione della presenza di migranti: un racconto smentito dai dati sulle prospettive di andamento della popolazione autoctona e sulla forza lavoro che quest’ultima sarà in grado di esprimere nei prossimi anni.

Il governo Meloni, in definitiva, ha fatto un passo avanti: questione di realpolitik? L’Unione europea riuscirà a fare altrettanto nei prossimi anni?

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