La fase preliminare della gara per la cessione dell’ex Ilva di Taranto, conclusasi con la presentazione di manifestazioni di interesse da parte di 15 player nazionali e internazionali, ha riacceso i riflettori sul destino dell’industria italiana. E, ovviamente, sulla necessità non solo di investimenti ma anche della ricostruzione di una identità che eviti il declino di un settore fondamentale per l’economia meridionale e nazionale.
Ma come se la passa l’industria italiana? Non troppo bene, al momento. Gli ultimi trimestri sono stati caratterizzati da una crescita modesta, molto vicina alla stagnazione, a causa della protratta recessione dell’industria e della contemporanea crescita dei servizi. E il quadro appare preoccupante anche per il terzo trimestre e la fine dell’anno. Rispetto al 2019, la produzione industriale si contrae del 2,5%, sebbene il valore aggiunto sia in rialzo del 3,4 grazie al maggiore numero di imprese che realizzando al proprio interno una parte degli intermedi.
In generale, dunque, l’industria europea versa in uno stato di debolezza conclamata da almeno tre elementi: domanda di beni bassa rispetto a quella dei servizi; ricomposizione della spesa a favore dei servizi dopo le restrizioni legate al Covid; aumento di vetture elettriche importate dalla Cina, le cui proposte risultano più competitive rispetto a quelle dello storico concorrente tedesco.
L’industria italiana segue l’andamento di quella continentale: l’automotive risente della crisi tedesca, la moda stenta ad attestarsi nuovamente sui livelli di produzione registrati prima della pandemia, i macchinari rallentati dalle incertezze sull’attuazione del piano Industria 5.0. Come reagire, dunque, a quello che appare un lento ma inesorabile declino? Soprattutto dopo il monito lanciato da Mario Draghi e a recente assemblea di Confindustria, appare necessario uno sforzo straordinario orientato in due direzioni: da una parte, la ricostituzione di un patrimonio industriale minacciato dalle dinamiche in atto negli Stati Uniti e in Cina; dall’altra, restituire alla politica industriale la capacità strategica.
In concreto, vuol dire concepire lo Stato come promotore e coordinatore dello sviluppo produttivo, dotandolo di una Pubblica Amministrazione più efficiente, coinvolgendo i corpi intermedi, superando l’autoreferenzialità della politica nella definizione delle strategie, valorizzando ulteriormente il ruolo del Cnel, prevedendo investimenti da realizzare secondo una visione comune dei destini economici europei. In altri termini, può e deve essere la politica a salvare l’industria, possibilmente senza trascinarsi in ambiguità e costringere gli addetti ai lavori a compromessi paralizzanti. A meno che non si voglia dire addio a uno dei comparti strategici dello sviluppo meridionale e nazionale.
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