Basta una norma europea sulla trasparenza a colmare il gap retributivo tra lavoratori e lavoratrici in Italia? Pur apprezzando la buona volontà dell’Unione, che ha recentemente partorito la direttiva 2023/970, la sensazione è che una “mini-riforma” del diritto del lavoro non sia sufficiente a scardinare quello che l’esperta Lucia Valente ha definito “equilibrio mediterraneo”, cioè quel sistema di valori che governa la distribuzione degli oneri di cura all’interno della società.
Partiamo, come sempre, dai numeri. Secondo l’Eurostat, in Italia il gap retributivo medio si attesta al 5%, mentre quello complessivo raggiunge addirittura il 43 a fronte del più contenuto 36,2 registrato in Europa. A questo problema l’Unione ha inteso rimediare con una direttiva che mira a rendere trasparenti le informazioni sui livelli retributivi e a prevedere strumenti che rendano facile la valutazione del valore del lavoro. Dal punto di vista strettamente normativo, però, manca una disciplina che imponga qualsiasi obbligo al datore di lavoro che, di conseguenza, è libero di retribuire i dipendenti in modo diseguale purché il diverso trattamento sia motivato da criteri neutri e oggettivi sotto il profilo del genere. Che cosa significa in concreto? I minimi tabellari sono uguali per lavoratori e lavoratrici, ma la parte variabile della retribuzione può cambiare – e cambia – a sfavore delle donne per tanti motivi: tendenza ad assentarsi più spesso per conciliare impegni professionali e familiari, minore disponibilità a trasferte e trasferimenti, impossibilità di garantire lavoro straordinario e notturno a fronte della necessità di accudire i familiari.
Ecco perché la direttiva europea non basta a scardinare un assetto sociale affermatosi soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia. Per allineare i salari di uomini e donne, dunque, servono investimenti pubblici ai quali l’Unione europea non fa cenno. Fondamentali sono innanzitutto gli asili nido. In Italia la disponibilità di strutture per l’infanzia per bambini tra 0 e 2 anni è molto limitata, con la conseguenza che ancora troppe donne non riescono a conciliare impegni familiari e professionali o, peggio, sono costrette a rinunciare al lavoro per dedicarsi completamente al ruolo di madri. Su questo fronte la speranza è il Pnrr: il valore dei bandi e degli avvisi per asili nido sfiora di importo maggiore o uguale a 5mila euro sfiora il miliardo e mezzo di euro e a fare la parte del leone sono regioni come Campania e Puglia, tradizionalmente afflitte dalla carenza di strutture per l’infanzia. Altrettanto indispensabile è un più largo ricorso ai congedi da parte dei papà visto che, secondo l’Ocse, in Italia solo il 20,5 % dei congedi è riservato ai padri, mentre la media europea supera il 30. Infine, va cambiato il sistema di tassazione e trasferimenti che, prevedendo crediti d’imposta per il coniuge a carico, scoraggia l’occupazione delle donne che di solito sono i membri della famiglia con prospettive retributive peggiori. Questo serve all’Italia, in particolare al Sud, per cambiare paradigma: visione del futuro e investimenti pubblici, non strategie destinate a rimanere lettera morta.
Raffaele Tovino è direttore generale di Anap