È il Termidoro della Terza Repubblica, il deflagrare dell’utopia giustizialista e populista in un acme di giustizialismo e populismo, che ne decapita il simbolo, e si compiace del contrappasso. L’indifendibile Giuseppe Conte è detronizzato da uno di quei giudici che egli ha eletto a numi tutelari della politica e della società. È smascherato nella sua proterva incompetenza sulle piazze mediatiche. È indotto a scoprire il suo malcelato tratto illiberale, e a dire dai microfoni di Lilli Gruber che della sospensione lui se ne infischia, e che la risposta sarà un bagno di democrazia. Però, nei fumi dell’ebbrezza rabbiosa, con cui il Paese accompagna al patibolo l’avvocato del popolo a cui per tre anni si è consegnato mani e piedi, nessuno si chiede se la vita di un partito si possa sospendere con un’ordinanza. Perché di questo si tratta, ancorché la si racconti come una sentenza. E ancorché la distinzione appaia, nel clima che intinge la rivoluzione nella restaurazione, una questione di lana caprina. Però la differenza c’è, eccome. E vale la pena di sottolinearla, anche a costo di fare un favore al periclitante Robespierre. Perché pochi scommetterebbero un euro sulla regolarità delle procedure che hanno portato Conte alla guida del Movimento Cinquestelle, a cui non era neanche iscritto. E nessuno dubita che i partiti siano, al pari di tutte le associazioni non riconosciute, soggetti al sindacato del giudice civile, avendo rinunciato peraltro a proteggersi con una cornice regolamentare, come la Costituzione pure gli suggeriva. Però qui il giudice interviene, com’è costume dei tempi, con una misura cautelare, la cui natura e la cui valenza simbolica sfugge a tutti.
Si tratta di un provvedimento assunto in camera di consiglio, in assenza di contraddittorio, e – come si dice in gergo giuridico – inaudita altera parte. Senza che i destinatari della misura, Conte e il partito che rappresenta, abbiano potuto esporre le loro controdeduzioni.
Il presupposto della sospensione del leader è il danno grave e irreparabile che deriverebbe dalla compressione del diritto di una minoranza, nel caso specifico rappresentata da tre militanti del Movimento, che furono esclusi dall’elezione del capo politico sulla piattaforma Rousseau, poiché erano iscritti da meno di sei mesi. Era il 6 agosto del 2021. Per proteggere il loro diritto di elettorato attivo, sette mesi dopo il giudice decapita il primo partito per rappresentanza parlamentare, rinunciando a una doverosa comparazione degli interessi in gioco, e in assenza di un processo che accerti il merito, cioè provi la fondatezza del ricorso. Per scongiurare il rischio di un danno grave e irreparabile di una minoranza, l’ordinanza cautelare ne infligge uno incommensurabilmente più grave e irreparabile alla maggioranza dei militanti.
In questa sproporzione c’è il mostruoso giustizialismo che muove l’interventismo giudiziario. E che racconta, prima ancora che la pretesa etica di tutelare e bonificare la vita della democrazia, la postura estetica della gamba tesa della magistratura sulla politica. Non ci s’indigna, perché Conte è il simbolo della più buia stagione dell’Italia repubblicana. Di peggio ci sono solo una condanna indiziaria e la rivalsa livorosa con cui le piazze, risvegliantesi dall’incantesimo, fanno strame dell’incantatore.