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Nella comunicazione globale la mancata scoperta dei vissuti di chi ci è accanto

Due persone che pensavo di conoscere, due professionisti affermati, perfettamente inseriti nel loro contesto ma di cui ignoravo il loro vissuto vero e profondo! La prima, una docente universitaria, racconta: spettacolo di Natale al centro diurno per giovani disabili a cui partecipa mia figlia, preparato per tre mesi, con una sceneggiatura impegnata, un lavoro di preparazione pazzesco che ti lascia basito per la dedizione di chi li conosce con i sorrisi ma anche con le bave, che prende abbracci ed anche schiaffi. Chi arriva da fuori entra e vede questi figli nostri tutti storti: qualcuno non cammina o non parla, alcuni capiscono in parte e altri dicono cose fuori posto. Gli ultimi degli ultimi: li avremmo scelti come figli sapendolo prima? Oh, io per me credo di no. Credo che se la Vita mi avesse chiesto il permesso, non glielo avrei mai dato.

E le sono così grata: in quel posto dove i nostri figli che appaiono storti, si vedeva la grazia esplodere. La stalla…, è proprio il luogo che la Vita sceglie come trono. Quei figli erano per noi premi Nobel e premi Oscar, i più belli di tutti. Perché erano insieme felici. E la “recita” di Natale non era una recita. Tutto vero. Quel mistero che trasfigura lo storto nel più dritto, il più povero nel vero ricco.

Davanti a te, figlia mia, ed ai tuoi amici, io ho provato fierezza, e non la pena o la compassione o il rammarico dei primi anni in cui vedevo prima il ritardo mentale e poi te.

Ho visto la tua e la loro grandezza, la mia affannata piccolezza. Un pieno di vita che sono così onorata e grata, con fatica, di attraversare. Nella casa in cui c’è la ferita diventata gemma, è sempre Natale.

La mia reazione è stata quella di recuperare il respiro…. ed ho pensato che la sua capacità di scavare nell’anima con le parole, sia davvero una spettacolare magìa.

L’altro amico dopo aver esitato a lungo, ha scritto un libro: un racconto incalzante, un “viaggio” nella storia della sua famiglia, nella vita dei suoi componenti, nel dolore lancinante per il distacco traumatico dal padre e per la malattia della madre prima e successivamente del fratello.

Il suo è un racconto senza filtri ed infingimenti sulle difficoltà del quotidiano, alla ricerca di alcuni “perché” che restano “sospesi” e senza risposte.

Una famiglia come tante, la sua, fino ad un giorno terribile rispetto al quale c’è la cesura tra un prima ed il dopo: “Auto contro camion, muoiono due fratelli. In fin di vita il terzo passeggero”. Questa tragica morte del padre e dello zio comporta inevitabili sconvolgimenti nella vita familiare rispetto al lavoro ed alla cura della madre: il figlio si “sostituisce” al padre e si “carica” di tutti i problemi rimasti.

I segni della malattia “senza nome” di sua madre diventano sempre più evidenti e quella che viene trattata come depressione è tutt’altro ma i medici non sono in grado di fare una diagnosi corretta.

Finalmente, grazie all’intuizione di un ottimo medico i disturbi hanno un nome: la Còrea di Huntington, una malattia che prende il nome da George Huntington, il medico americano che l’ha descritta per la prima volta nel 1872, sintetizzandone tre punti fondamentali: l’ereditarietà, il carattere progressivamente invalidante e, infine, la tendenza al disturbo mentale.

Il riferimento alla Còrea, cioè alla “danza” si spiega perché si tratta di una malattia caratterizzata da movimenti involontari, improvvisi, rapidi, incomposti, incoercibili, continuamente variabili: una tragica danza che non dà scampo a chi, giovane o adulto, ne venga colpito.

La pesante situazione causata dalla patologia non riguarda solo la madre ma, nel tempo, si manifesta anche nel fratello che inizia ad avere disturbi sempre più gravi ed evidenti. E forse è questa la situazione più dura: “convincere” suo fratello a fare degli esami specifici per accertare se l’ereditarietà ha condannato anche lui.

“Ricordi gli sbalzi d’umore di mamma? Ricordi la disperazione di papà? No. Forse tu non ricordi queste cose. Perché in quel periodo ero io a occuparmi di loro. Ero io ad accompagnarli dai medici. E quando papà morì fui sempre io a prendermi cura di mamma. Ma non voglio parlarti di questo. È solo per dirti che molte cose della malattia tu non le conosci, perché non le hai mai veramente vissute. Non sai come si manifesta, né quali sono i primi sintomi. E ti comporti come se non sapessi nulla della sua trasmissibilità”.

E la dedizione alla “cura” della sua famiglia è il filo conduttore di tutto: la sua vita privata, il suo matrimonio, il suo tempo libero e persino il suo lavoro sono condizionati ogni giorno da questo impegno morale assunto e portato avanti con coraggio e coerenza. Un racconto che lascia con il fiato sospeso fino alla conclusione!!!

Rendo omaggio al loro coraggio, alla faticosa costanza in un impegno che non conosce giorno o notte, ferie o “pausa caffè”: sono due storie di vita nel quale in tanti potremmo immedesimarci e che deve essere “utile” a coloro che sono “fortunati” e non conoscono quanto sia devastante convivere con una persona cara affetta da patologia rara oppure accettare il ritardo cognitivo di un figlio.

Traggo da tutto ciò una importante considerazione. Nella vita vera, molti portano dentro un buco nero costituito da ricordi angoscianti, da scrupoli per quello che hanno fatto o peggio che hanno omesso: le parole non dette pesano come macigni ed i grovigli di sensazioni si concentrano a livello intestinale che già da tempo, non a caso, la Medicina definisce come il secondo cervello, quello delle emozioni.

E noi che pensiamo di conoscere tante persone, abbiamo tanti amici sui social e la rubrica del cellulare è piena zeppa di numeri, ma in realtà siamo ignari della “verità” e davvero sappiamo quasi nulla della vita dell’altro che ci vive accanto. Consumiamo energie per rendere splendente la superficie e non riusciamo a “scendere” nel piano interrato delle emozioni vere: uno spreco di umanità anche se, forse, non è mai troppo tardi per recuperare!

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