C’è un momento della tradizione mitologica greca in cui l’epica lascia il posto alla voce di chi soffre e lo sguardo si posa sull’ultimo, su quello che cade. Ed è Sofocle a dipingere l’affresco dell’uomo dimenticato, abbandonato, escluso. Eppure Filottete, questo il nome del protagonista, non è un traditore, non è un assassino, non ha commesso alcun reato. È un uomo che soffre, è un soggetto fragile, ma nella mentalità greca, la comunità si regge su un delicato equilibrio tra individuo e polis e chi lo turba, anche involontariamente, rischia l’esclusione.
Ma veniamo alla storia. Gli Achei imbarcati per raggiungere Troia, fanno sosta sull’isola di Lemno, dove uno di loro, appunto Filottete, viene morso da un serpente. Passano i giorni e questa ferita non si rimargina, ma si trasforma in qualcosa di purulento e maleodorante, che provoca febbre, dolore, malessere. Perciò i compagni decidono di partire, di abbandonarlo, di continuare la loro spedizione anche senza di lui. Sofocle ci porta a riflettere su una condizione umana troppo spesso ignorata nella narrazione mitica: quella della sofferenza cronica, del corpo che emana puzza, del dolore che isola. Filottete non viene abbandonato perché colpevole, viene abbandonato perché è fragile. Perché soffre troppo. Perché urla. Perché il suo dolore è fisico, visibile, molesto.
Ma Filottete non è solo un personaggio antico. È un simbolo. È una metafora. È un’icona. Filottete è terribilmente moderno in quanto ritorna in vita ogni volta che qualcuno ci sputa in faccia il proprio malessere e noi lo lasciamo solo perché la sofferenza ci spaventa. Viviamo in un mondo che isola il dolore e che vede nella malattia cronica qualcosa di troppo pesante da poter gestire e allora lo subappaltiamo a una badante o a una Rsa.
Ma Filottete oggi non è solo l’anziano con Alzheimer o il malato oncologico terminale, ma anche quel ragazzo con gli attacchi di panico che quando gli amici lo incontrano cambiano strada o quella donna depressa che ogni volta che arriva in ufficio, le colleghe la evitano. E questo perché non ci si abitua mai al dolore degli altri, in quanto, quando è forte, è contagioso. E fa paura. E allora meglio allontanarlo, su un’isola deserta o facendogli il deserto intorno. Lo si isola. Come si fa con i rifiuti tossici. Ma domani, quando Filottete saremo noi, chi ci sarà accanto?
Bentornato,
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