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Certe sentenze rivelano la deriva autoritaria dello Stato che ci governa

È iscritta sul fondo delle aule dei tribunali una massima che ciascuno di noi conosce in quanto cittadino italiano: “La legge è uguale per tutti”. Durante i processi è essa che raccoglie gli sguardi di chi è accusato e di chi difende, ma, in misura abbastanza strana per noi, non di chi giudica. È essa, infine, che al momento della sentenza arriva a divenire speranza alle spalle del giudice. L’uguaglianza della legge è una prospettiva politicamente bifronte, che osserva chi non è capace di osservarla e ignora chi alle sue spalle la sta osservando. Questa uguaglianza è figlia di una dottrina tutta sociale che ha incardinato ab antiquo i principi della democrazia. Ci concepiamo uguali nel 21esimo secolo dunque, solo davanti a una costruzione politica che ci deriva dall’ordine della tirannia. Questa è ciò che noi chiamiamo da due millenni “legge”.

La massima che allora aleggia dagli scranni delle corti dei tribunali viene letta dalla nostra cittadinanza come traduzione diretta della “giustizia”. Quel che ne deriva sul piano fenomenologico del sociale è una associazione quasi ancestrale della legge come giustizia. Varrebbe a dire in questi termini che ogni emanazione di legge è di per sé giusta perché crea giustizia. La realtà, però, è ben nota a pochi se anche alla maggior parte dei giurisperiti sfugge oggi l’ossimoro tra giustizia e legge. Se la giustizia continua a coincidere, nella teoria così come nella pratica, con la legge, allora arriviamo del tutto a omettere la cosiddetta “Repubblica del diritto”.

È insita nel nome di “giustizia” la radice che la distanzia notevolmente dalla legge (“lex”) e la affilia al “ius”, il diritto. Iustitia è il concetto antenato e comunque da noi ereditato nella Costituzione come principio cardine per la “cosa pubblica” istituito dagli antichi romani dopo la guerra coi Latini. Quel che ci è sopravvissuto di questa “virtù sociale”, come la chiamava anche Norberto Bobbio, è il vezzo del diritto, arrivatoci in una veste del tutto distorta dal suo senso originale di “facoltà politica”, che riassumeva, nella Roma repubblicana sino a quella mazziniana preunitaria, tutte le capacità non solo socialmente giuridiche ma le azioni politiche del privato cittadino all’interno di una neonata tensione democratica. Ma il diritto non deve creare la stessa uguaglianza della legge, altrimenti mancherebbe ai suoi presupposti genetici. È la legge che crea uguaglianza attraverso la garanzia del diritto, ma il diritto non è uguale per tutti. Tuttavia esiste, o dovrebbe esistere, per tutti, proprio per connotare a ogni uomo la sua privata fisionomia giuridica e la sua pubblica azione politica. Qualora si cercassero invece sotto l’egida di un Governo autocratico come quello attuale europeo, i motivi di una “exaequatio legis in iure”, ossia di una equazione della legge col diritto, si produrrebbero misure per i singoli Paesi membri che vadano a danneggiare la bussola della giurisprudenza, e quindi responsabili di danni irreversibili per l’assolvimento della giustizia sociale.

La recente sentenza 9216/2025 della Corte di Cassazione che ha in questi giorni respinto il decreto ministeriale del 31 gennaio 2019 sotto il governo Conte I, che reintroduceva la distinzione di genere dei genitori per il documento di identità dei minori, a favore di una meno discreta e – parrebbe – meno discriminante dicitura di “genitore”, porge l’esempio di riflessione del nostro stato giuridico attuale derivato da uno sempre meno politico, ma faziosamente partitico, anche nei meandri teorici della magistratura. Alla magistratura non tocca infatti un limbo di ignavia intellettuale che la astragga dal tessuto politicamente intrecciato del presente, e nemmeno è loro prerogativa estromettersi dalle polemiche dei casus publici che investono il tempo in cui opera la legge. Alla magistratura spetta proprio il paradigma della “giusta politica”, ossia di ciò a cui deve tendere la civiltà del presente, della sostanza intellettuale e sociale di cui si deve far tesoro nelle aule ministeriali. Una repubblica democratica come l’Italia che è nata da una struttura cellulare esattamente “municipale” e “comunale”, non può inosservare quella pragmatica teoria del Mommsen per cui ancora sussisterebbe sottesa una “diarchia” tra Senato e Magistratura all’atto di fondazione della nostra Costituzione. Un equilibrio alle sommità dello Stato che crea dalla stabilità politica anche una giuridica all’interno dell’opinione pubblica, che così verrebbe a coltivare costantemente il cosiddetto dialogo democratico. Ma per una giustizia sociale che abbia questo effetto sull’opinione e sull’azione pubblica, è necessaria oltremodo una giurisprudenza che conservi il senso del diritto come testamento della identità di un popolo, di una cultura, di un paese e di una civiltà, riconoscendo sì la gerarchia del sistema internazionale, ma non disconoscendo l’autonomia della propria “legge morale”.

Il diritto deve continuare a coincidere con l’identità dell’uomo, con i suoi mores, i suoi pregi e vizi, e non cercare di oscurarla con la sopraffazione dell’ideologia legislativa che sta contaminando specialmente il continente europeo, sempre più teso alla distrazione dei diritti e alla creazione di leggi omologanti. Si veda la serie di disposizioni proposte a Bruxelles per quel processo decennale ormai di “assimilazione generale” del sesso umano.

Uno Stato che crea più diritti di legge, e non leggi di diritto, merita la definizione di Stato autoritario, dal momento che si tende a eliminare lo spazio di discussione contraddittorio e creare un foro di approvazione censorio. C’è bisogno di ripensare al significato di “giurisprudenza” se veramente si vuole garantire una giustizia “inter pares” e non solo “inter partes”, che non permetta alla legge di creare diritti qualunque cosa sia in grado di legiferare per cancellare e non per rispettare. L’esigenza attuale, dimostrata in primis dalla Corte internazionale e poi appoggiata dal Vaticano, di avvicinarsi al diritto per la facilità, per valicare le difficoltà gnoseologiche umane più profonde, come quella identitaria che sta attraversando tutto il globo terraqueo, è un passo molto vicino dal rischio di entrare in una “giurispazienza” che tolleri qualsiasi forma pungolo giuridico che possa sbrigarsi più facilmente come “oggetto” di diritto anziché come “questione” di diritto. A bene intendere, ogni problema nuovo sociale può essere fonte a prescindere di diritto soltanto perché lo è sociale, ma non naturale, e dunque umano. Si parla così di tolleranza giuridica e non di prudenza giuridica, che ammette con la propria passività costituzionale una apertura all’indistinto, al vago, al genere, all’astratto, e non al discreto, al diverso, e soprattutto, al concreto. La “prudentia iuris” non dovrebbe essere solo una scienza umana per l’umano, ma soprattutto una coscienza umana per la libertà umana, se vogliamo che la nostra repubblica non perda il suo “stato” di democrazia.

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