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Cara Meloni, il Sud non resti una delega chiusa nel cassetto

Sistemato Raffaele Fitto a Bruxelles, l’importante delega per il Mezzogiorno non è stata attribuita al successore, il piacentino Tommaso Foti, ma è stata trattenuta nelle mani del premier. Una scelta che rivela tensioni nel governo, acuite anche dalla recente sentenza della Corte Costituzionale sulla legge Calderoli per l’attuazione dell’autonomia differenziata. Il patto di governo della grande alleanza di destra comincia a scricchiolare e le crepe cominciano a essere evidenti. Una di queste riguarda proprio la politica per il Mezzogiorno. Il comunicato del governo con cui si annuncia la scelta di Meloni afferma che il Presidente del Consiglio «ha avviato, da subito, una ricognizione all’interno del governo in merito a quanto già realizzato per rafforzare lo sviluppo del Mezzogiorno, ai programmi in atto e alle proposte ancora da implementare, in particolare su incentivi, infrastrutture e investimenti».

La politica per il Mezzogiorno era stata impostata da Fitto con l’istituzione, nel 2023, della Zona economica speciale unica per tutte le regioni meridionali. Ma a un anno di distanza sono emerse diverse criticità che riguardano soprattutto la consistenza dei vantaggi fiscali per le imprese che devono essere calcolati sui reali investimenti e il credito d’imposta è incompatibile con quello per per investimenti in beni nuovi strumentali o con il credito d’imposta transizione 5.0.

Per il momento l’unica certezza, dopo un intervento del governo, riguarda il raddoppio a oltre 3,2 miliardi dell’entità delle risorse disponibili per il credito d’imposta. La politica definita da Raffaele Fitto si colloca in un approccio liberista in cui lo strumento degli incentivi fiscali prevale sull’intervento infrastrutturale, basato sull’iniziativa pubblica. Anche i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza sono stati rivolti prevalentemente in questa direzione.

Seguendo questo approccio, dei meccanismi di sviluppo possono innescarsi solo nelle aree del Mezzogiorno che godono già di una sufficiente dotazione infrastrutturale, quelle che, riprendendo una nota definizione del politico ed economista italiano Manlio Rossi Doria, possono essere definite come la “polpa” del Mezzogiorno, mentre quelle carenti di infrastrutture, che Rossi Doria avrebbe chiamato l’“osso”, resterebbero escluse, in quanto nessuno investirebbe in zone in cui non esiste neppure una rete ferroviaria moderna e al passo con altre zone del Nord e del Centro.

La Zona economica speciale unica presuppone che le regioni meridionali abbiano condizioni di partenza omogenee, ma la realtà è, a conti fatti, ben diversa. Il Mezzogiorno è ancora una “grande disgregazione sociale”: la nota definizione di Antonio Gramsci dopo un secolo dalla sua apparizione nel dibattito culturale italiano resta ancora valida. Nei 123mila chilometri quadrati su cui si estende la Zona economica speciale unica vi sono realtà molto diverse tra loro per storia e sviluppo e spesso neppure confrontabili. Il dramma è che oggi la classe dirigente, sia di governo che di opposizione, non possiede una visione realistica del Mezzogiorno e non è quindi in grado di elaborare una strategia di sviluppo efficace che riesca a impattare appieno sul territorio.

L’unica realtà meridionale che forse interessa è quella che circonda il proprio collegio elettorale, il resto non conta. La scarsa conoscenza induce a elaborare semplici ricette applicabili a un astratto e ideale Mezzogiorno d’Italia. Si pensa al turismo come volano dello sviluppo, ma non tutte le aree possono accogliere flussi turistici consistenti e scarso è il beneficio che ne può derivare per una grande metropoli come Napoli; si propone l’iniziativa privata, ma non è possibile pensare che sorgano attività imprenditoriali dove non esiste una mentalità e una cultura economica adeguata; si vuole debellare l’economia illegale e criminale, ma ci si affida a meccanismi del libero mercato che rischiano di favorirla; si pensa a investimenti diretti dall’estero, ma non si può basare un processo di sviluppo sui volubili interessi delle grandi multinazionali senza imporre regole di controllo pubblico; si propongono faraoniche opere pubbliche come il ponte sullo Stretto, ma si lascia poi la Sicilia senz’acqua e senza un sistema ferroviario.

La politica di intervento straordinario del dopoguerra fu fondata su una conoscenza approfondita delle condizioni del Mezzogiorno d’Italia, in gran parte definite dagli studiosi meridionalisti riuniti nello Svimez, le cui posizioni teoriche trovarono una realizzazione concreta nelle scelte politiche. Spesso non esisteva alcuna differenza tra il politico e lo studioso del Mezzogiorno. Oggi i pochi meridionalisti sono predicatori inascoltati. Il Mezzogiorno, questo sconosciuto, resterà, molto probabilmente, solo una delega chiusa nel cassetto del premier.

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