Cara Meloni, due eccellenze non bastano

Definire Maria Rosaria Boccia è difficile. C’è chi ne parla come una imprenditrice e chi, invece, prevede per lei un futuro da influencer. Da parte sua la 41enne campana, che avrebbe avuto una relazione col dimissionario ministro Gennaro Sangiuliano, non esita a manifestarsi ora come presidente della Fashion Week di Milano, ora come docente dell’università “Federico II” di Napoli, ora come consulente del Ministero della Cultura per i grandi eventi. E tutto questo alimenta il ping pong: da una parte Boccia, che esibisce titoli e incarichi, dall’altra chi ne prende le distanze o tenta addirittura di delegittimarla. Ieri l’ultimo episodio della saga: la “Federico II” ha chiarito che la 41enne campana “non è titolare di cattedra o ruolo di assistenza ai docenti” a differenza di quanto da lei riportato sui social, dove si presenterebbe come “docente di Scienze della comunicazione e media digitali del master in Medicina estetica”.

Nemmeno il tempo di lasciare che le agenzie rilanciassero la nota della Federico II e Boccia ha “controsmentito” pubblicando due attestati di docenza e persino la foto con un professore. Prima ancora, quando la liaison tra lei e Sangiuliano era stata appena scoperta, il presidente della Camera della moda di Milano aveva diffidato la donna che si era detta presidente della Fashion Week del capoluogo lombardo. Insomma, secondo qualcuno ci sarebbe più di un’ombra su formazione, contratti e consulenze di Boccia. Quel qualcuno non è sicuramente Sangiuliano, secondo il quale la 41enne campana aveva tutti i requisiti per ottenere l’incarico gratuito di consigliera del Ministero della Cultura.

Chi ha ragione? Difficile dirlo. Non è questa la sede per valutare il profilo professionale di Boccia. Certo è, tuttavia, che se certi dubbi dovessero essere confermati, il problema si porrebbe non solo e non tanto per l’imprenditrice campana ma soprattutto per Giorgia Meloni. Per la presidente del Consiglio, dopo l’imbarazzo legato alle dimissioni di Sangiuliano, rischia di scatenarsi un effetto collaterale: più tenta di demolire l’immagine di Boccia, più quella di Fratelli d’Italia appare come una classe dirigente incapace di “selezionarsi” e di selezionare i collaboratori, dunque non all’altezza. Quello di Sangiuliano, infatti, non è un caso isolato. A imbarazzare la premier erano già stati il sottosegretario Andrea Delmastro, rinviato a giudizio per rivelazione del segreto d’ufficio sul caso Cospito, e il deputato Emanuele Pozzolo, nel mirino della magistratura per la vicenda del 31enne ferito da un colpo di pistola durante una festa di Capodanno.

Non bastano eccellenze come il ministro Raffaele Fitto e il sottosegretario Alfredo Mantovano (entrambi pugliesi, tra l’altro) oppure altri esponenti di governo quasi unanimemente apprezzati come Guido Crosetto e Adolfo Urso. Perché la mancanza di una classe dirigente di livello affligge Meloni anche e soprattutto a livello locale. Basta pensare alla Puglia, trasformatasi «da baluardo del centrodestra in regione rossa a prescindere»: parole di Gaetano Quagliariello, politologo di altissimo profilo che non può certo essere tacciato di simpatie di centrosinistra. A Bari e dintorni la classe dirigente di centrodestra si è progressivamente spenta perché all’elaborazione culturale, alla visione politica e alla strategia amministrativa ha preferito le prebende, le contiguità o addirittura l’equivoca “zattera” del civismo per passare all’altra sponda. Risultato: vent’anni di strapotere del centrosinistra, cominciato con Vendola, proseguito con Emiliano e Decaro e, di questo passo, destinato a perpetuarsi.

E allora, dopo aver trascinato il partito fuori dalle catacombe del neo e post-fascismo per proiettarlo verso il conservatorismo europeo, Meloni deve vincere un’altra sfida: strutturare una classe dirigente seria, preparata e autorevolissima, mettendo da parte “reducismi” e familismi ed esaltando la capacità di elaborazione culturale e quella spinta riformatrice che pure hanno fatto parte del bagaglio del Movimento sociale prima e di Alleanza nazionale poi. In gioco c’è non solo una tradizione politica, ma soprattutto la credibilità di un Paese chiamato a giocare un ruolo da protagonista anche in Europa.

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