Con la formazione del nuovo governo, il dibattito sull’autonomia differenziata ha ricevuto una drastica accelerazione, impressa dall’attivismo del ministro Roberto Calderoli. Siamo dunque all’atto finale di un lungo processo? O, ancora una volta, la riforma costituzionale resterà tale solo sulla carta? Insomma, il regionalismo è solo una rivendicazione, fortemente ideologica, di una parte politica, anche minoritaria, o invece corrisponde a un movimento reale di interessi, a un processo storico? Ebbene, la risposta a questi quesiti va cercata al di là delle Alpi: la tendenza ad attribuire un ruolo centrale alle regioni, superando la nozione stessa di Stato-Nazione, è stata innescata dal processo di integrazione europea.
Un atto preliminare in questa direzione fu l’istituzione, nel 1975, del Fondo europeo per lo sviluppo regionale che individuò la dimensione regionale come asse portante della politica comunitaria. Quattro regioni (Baden-Württemberg, Rhône-Alpes, Lombardia e Catalogna) e non quattro Stati, sono stati indicati come motori d’Europa, e, come assoluti protagonisti, furono i presidenti di queste regioni che a Stoccarda, nel settembre 1988, sottoscrissero un memorandum di cooperazione economica. Il processo stesso di integrazione europea disegnato dalla Commissione Delors (1985-1994) svuotava esplicitamente il ruolo dello Stato nazionale operando su due piani paralleli: sia incoraggiando processi di devoluzione verso le autonomie regionali, sia rafforzando il ruolo delle istituzioni a livello sovranazionale. Un processo che era ovviamente sostenuto dal movimento federalista europeo che considerava il legame diretto tra la regioni e la Commissione europea come l’unico strumento per attuare un sistema federale europeo. Con il Trattato di Maastricht del 1993 fu istituzionalizzata la presenza regionale stabilendo la costituzione del Comitato europeo delle Regioni, con funzioni di ordine consultivo su scelte politiche che hanno impatto a livello regionale, e in particolare su sanità pubblica, occupazione, istruzione, trasporti. In prospettiva della costituzione di un ordinamento federale europeo, tale organo avrebbe dovuto assumere funzioni simile al Bundesrat tedesco. La regionalizzazione è alla base della politica di coesione e agli Stati di nuova adesione, soprattutto quelli provenienti da tradizioni di accentramento amministrativo, come le ex repubbliche popolari dell’Est Europa, è chiesto ufficialmente di istituire le strutture amministrative regionali per gestire i finanziamenti della politica di coesione. L’ammissibilità dei territori ai fondi strutturali è, infatti, definita attraverso la Nomenclatura delle Unità Territoriali Statistiche (Nuts) che seziona il territorio dell’Unione europea su basi regionali e non nazionali.
In questo contesto favorevole, le regioni hanno creato istituzioni e definito iniziative per rafforzare il loro ruolo politico nello scenario dell’Unione europea, stabilendo uffici di rappresentanza diretta a Bruxelles, istituendo assessorati agli affari europei, attivando funzioni di lobbying sugli organi centrali per ottenere vantaggi competitivi, creando associazioni interregionali transnazionali e transfrontaliere sulla base di interessi economici comuni e di affinità linguistiche e culturali, definendo accordi di cooperazione su materie e settori di interesse comune specifico. Il processo di regionalizzazione dell’Unione è stato accelerato dall’istituzione della moneta unica che ha fortemente ridimensionato il potere degli Stati nazionali, sottraendo loro la sovranità monetaria. In una area monetaria comune si attivano sia processi di convergenza intorno al nucleo più sviluppato, sia processi di marginalizzazione delle realtà territoriali. Queste tendenze hanno creato frammentazioni e riaggregazioni che non coincidono più né con i confini dello Stato nazionale né con i confini amministrativi delle unità territoriali, attivando nuove realtà locali transnazionali sulla base di processi di integrazione economica.
La congiuntura negativa degli anni Dieci e le politiche di austerità hanno certamente rafforzato progetti indirizzati ad acquisire status autonomistici soprattutto in materia fiscale, con l’obiettivo di sottrarsi alla esosa fiscalità generale e di disporre pienamente delle proprie ingenti risorse. Il caso più esemplare di questa tendenza è certamente rappresentato dalla vicenda della Catalogna che ha portato alle estreme conseguenze questo indirizzo politico, formulando esplicitamente una richiesta di indipendenza. Ed è inutile sottolineare che la Catalogna si differenzia fortemente per ricchezza dalle altre comunità autonome spagnole. Un indirizzo analogo, anche se con toni politici moderati, è stato manifestato anche in Italia, dalla Lombardia, dal Veneto e dalla Emilia Romagna che, come è noto, sono regioni ricche. Il processo di disgregazione dello Stato nazionale è quindi strettamente connesso a quello di integrazione europea: la sopravvivenza dello Stato nazionale non è dunque compatibile col processo di integrazione europea. In questo senso, Calderoli può essere davvero considerato come il becchino dello Stato nazionale italiano.
Rosario Patalano è economista