Mezzanone è oggi il simbolo di un fallimento strutturale e morale: quello di uno Stato che ha accettato per troppo tempo che la marginalità diventasse una condizione permanente.
Non si tratta solo di baracche, ma di un sistema che ha tollerato — se non alimentato — un’economia parallela fondata sullo sfruttamento e sull’irregolarità.
L’arrivo dei fondi del PNRR (il Piano nazionale di ripresa e resilienza) avrebbe dovuto segnare una cesura netta. E invece, tra proroghe e piani mai del tutto attuati, il rischio a questo punto è che la montagna partorisca l’ennesimo topolino: contenitori prefabbricati, qualche modulo igienico, e nessuna visione trasformativa.
Non si esce dai ghetti con le sanatorie indiscriminate. Anzi: premiare in modo indistinto rischia di consolidare un sistema opaco, dove il confine tra diritto e favore è sempre più sottile. Occorre avere il coraggio di dirlo chiaramente: devono essere regolarizzati solo coloro che lavorano, contribuiscono, rispettano le regole. Chi non lavora, chi resta ancorato al circuito informale o criminale, non può beneficiare di alcun percorso agevolato. Lo Stato non può permettersi di scambiare il bisogno con il ricatto.
Al tempo stesso, è ipocrita puntare il dito solo contro chi abita il ghetto. C’è un sistema imprenditoriale che lucra su questo stato di cose, che assume con contratti part-time per poi far lavorare dodici ore al giorno, che ignora il costo reale del lavoro per massimizzare i margini. È lì allora che servono controlli veri, ispezioni senza sconti, sanzioni non simboliche ma esemplari. Perché chi sfrutta distrugge non solo la dignità delle persone, ma anche e soprattutto la legalità economica e la concorrenza leale.
La fuoriuscita da Mezzanone — e da ogni altro ghetto — non può essere affidata solo al linguaggio dell’accoglienza, ma deve passare da una chiara gerarchia dei valori civici: chi lavora va protetto, chi sfrutta va colpito, chi sta ai margini va chiamato alla responsabilità. Senza ipocrisie, senza ambiguità.
Se i fondi PNRR devono servire a qualcosa, allora servano a costruire percorsi veri di inclusione, abitazioni stabili, formazione, accesso alla salute e soprattutto lavoro regolare. Ma servano anche a dismettere definitivamente il modello di tolleranza passiva, che ha fatto dei ghetti una soluzione tacita ai problemi dell’agricoltura industriale. La dignità non si differisce.