Esattamente un secolo fa, eravamo a fine luglio del 1925, Guido Dorso mandava in stampa la sua “Rivoluzione Meridionale”, per conto dell’omonima casa editrice fondata da Piero Gobetti. In quel saggio, il più importante tra gli scritti dello studioso e politico irpino, Dorso riprendeva e sviluppava in modo definitivo e completo un altro suo testo, “Appello ai meridionali”, che invece aveva pubblicato il 2 dicembre del 1924 sulla prima pagina de “La Rivoluzione Liberale”. “La riforma è un disincentivo per il rinnovamento della classe dirigente del Sud – scrivono sul “Corriere della Sera” del 21 luglio scorso – perché il problema del Mezzogiorno sta proprio nel non essere riuscito ad esprimere una classe dirigente locale adeguata. Nel Mezzogiorno, i politici locali sembrano governare in consorterie di potere in cui si aggregano interessi particolari più che istanze e politiche generali. Con l’autonomia differenziata – concludono Drago e Reichlin – gli incentivi alla formazione di classi dirigenti nel Mezzogiorno responsabili e capaci diminuiscono. Con o senza richiesta di autonomia, i politici locali si troveranno impreparati o deresponsabilizzati”. Se ci si sofferma a leggere la tesi degli economisti Francesco Drago e Lucrezia Reichlin, a proposito di autonomia differenziata e classi dirigenti meridionali, sembra che a sud del Tevere la situazione non sia mutata in nulla. Gli stessi difetti atavici permangono come chiodi arrugginiti nelle travi marce di un solaio pronto a crollare e le medesime tare continuano a minare la condotta pubblica delle classi dirigenti.
Insomma, nel loro ragionamento prende corpo un determinismo antropologico a prescindere, comprovato dalla fluidità del voto dei meridionali sempre a caccia di nuove prebende e pronti a dare credito solo a quei padrini politici che promettono mari e monti, che diventa l’alibi peggiore per rinunciare in nuce al progetto di riforma sull’autonomia differenziata. Il trasformismo interessato e non hegeliano che Guido Dorso rimproverava duramente alle classi dirigenti delle regioni meridionali, pronte a “creare durature combinazioni politiche, cementando gli interessi di qualche gruppo del Nord con gli affari di tutti i ladruncoli dichiarati contabili del Sud”, riemerge con tutto il suo anacronismo pedagogico nella analisi dei due economisti. Però, mettendo anche da parte questa spocchiosa pigrizia utilizzata per descrivere sinteticamente la pluralità della classe dirigente meridionale, che può essere raccontata come tutta brutta e cattiva solo se si è in malafede, va detto che se questa impostazione ha un suo fondamento, allora se ne deduce una conseguenza più ampia e pericolosa che quale i politici e gli amministratori campani, pugliesi, calabresi, molisani e lucani dovrebbero rispedire sdegnosamente ai mittenti. Perché a questo punto, se siamo così inadeguati e impreparati, tanto da “prevedere che più autonomia per queste Regioni peggiorerebbe lo status quo”, allora è chiaro che il tema non riguarda più solo la riforma disegnata da Calderoli e votata dal Parlamento, ma investe tutto il rapporto devolutivo tra lo Stato centrale e le inefficienti Regioni meridionali. Drago e Reichlin, pur di legittimare l’avversità all’autonomia differenziata, finiscono per gettare via con l’acqua sporca anche il bambino quando, al contrario, dovrebbero fare uno sforzo per “eccitare la formazione della nuova classe dirigente – come si proponeva Guido Dorso – ed educarla al disprezzo della vittoria nascente dal compromesso”.
Bentornato,
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