Viviamo in un Paese capace di infiammarsi per un rigore, di scendere in piazza per una finale, di trasformare una vittoria sportiva in festa nazionale. Eppure, quello stesso Paese resta muto quando qualcuno muore in un pronto soccorso dopo ore d’attesa. Restiamo spettatori anche davanti alla morte, anestetizzati da un sistema che ci vuole distratti, rassegnati, inerti.
In Puglia, terra bellissima e ferita, la malasanità continua a mietere vittime nel silenzio generale. Non parliamo di statistiche, ma di persone, di famiglie distrutte, di vite spezzate che avrebbero potuto essere salvate. Come quella di Viviana Delego, 41 anni, morta dopo un parto gemellare all’ospedale Perrino di Brindisi. L’ispezione regionale parlò di una «tempesta perfetta» di errori e ritardi organizzativi. Una madre che avrebbe dovuto abbracciare due figli e che invece ha trovato la morte in un luogo dove la vita avrebbe dovuto vincere. O come Natasha Pugliese, di 23 anni, deceduta durante un intervento chirurgico al Policlinico di Foggia. Venti sanitari indagati, un’inchiesta ancora aperta e una famiglia che chiede soltanto verità. Un altro nome che rischia di finire dimenticato tra le pieghe delle carte giudiziarie. Poi c’è Giovanni Lepore, 60 anni, ricoverato a Lecce per dolori forti. Dimesso con una diagnosi di ernia, è morto dopo una biopsia. I familiari chiedono la riesumazione del corpo per capire cosa sia davvero accaduto. Un dramma che racconta la solitudine del malato di fronte a un sistema sanitario che troppo spesso sbaglia diagnosi o sottovaluta i sintomi. E ancora Danilo Pellegrino, 52 anni, morto nel settembre 2025 al Pronto soccorso di Casarano. Arrivò con dolori al petto, ma restò ad attendere. La moglie ha raccontato che il medico ironizzava sul suo stato, e dopo quell’attesa disperata Danilo non ce l’ha fatta. Otto persone oggi sono indagate. Non per ultimo l’ennesimo caso di malasanità porta il nome di Antonia Notarangelo, 76 anni, morta a Vieste dopo oltre un’ora di attesa e senza un’ambulanza disponibile. I figli denunciano che al pronto soccorso “non c’era neppure un medico” e che la madre «non era stata considerata grave». Una frase che fa rabbrividire: «Non era grave». Eppure è morta. Cinque storie, cinque nomi, ma dietro ognuno di loro c’è un intero Paese che si è abituato all’ingiustizia. Ospedali chiusi, medici stremati, pronto soccorso trasformati in anticamere della disperazione. E mentre al Nord si parla di efficienza e tecnologia, al Sud si combatte ancora per un letto libero, per una diagnosi, per un’ambulanza che arrivi in tempo.
Secondo le statistiche, in Puglia nel 2024 si sono registrati oltre 300 episodi di aggressione al personale sanitario, segno di una tensione sociale ormai al limite. Ma non è rabbia cieca: è disperazione. È la reazione di chi ha perso fiducia in un sistema che non riesce più a garantire il diritto alla cura. Le liste d’attesa durano anni, i pazienti si indebitano per curarsi nel privato, i giovani medici emigrano.
È la fotografia di un’Italia divisa, dove la salute dipende ancora dal Cap di residenza. Non è solo una questione sanitaria, ma culturale. Ci infervoriamo per una partita, ma non per un diritto negato. Difendiamo una maglia, ma non la nostra dignità. Abbiamo trasformato la rassegnazione in normalità. Eppure la vera partita si gioca altrove. Non negli stadi, ma nei reparti. Non nei cori, ma nei silenzi. La sanità non è una spesa da tagliare, è un investimento che salva vite, costruisce futuro, garantisce equità. Serve una coscienza collettiva. Serve indignazione, non rassegnazione. Serve ricordare che dietro ogni caso di malasanità non c’è solo una vittima, ma un intero sistema che ha smesso di funzionare.
Finché continueremo a infiammarci per un gol e a tacere per una tragedia, resteremo prigionieri di un Paese che preferisce lo spettacolo alla verità. E il giorno in cui capiremo che la libertà, la salute e la giustizia valgono più di una vittoria allo stadio, forse avremo davvero vinto la nostra partita più importante.