Salario minimo legale da una parte, rafforzamento della contrattazione collettiva dall’altra, senza dimenticare l’aumento delle dimensioni e della produttività delle imprese: sono tante le “ricette” suggerite da politici, sindacalisti ed economisti per affrontare il drammatico problema del lavoro povero in Italia e soprattutto nel Mezzogiorno. Però quasi nessuno, se non Roberto Antonio Romano sulle pagine di “Domani”, ha messo a fuoco la necessità di modificare la struttura economica nazionale stimolando gli investimenti in ricerca e sviluppo e la registrazione dei brevetti. In questo modo, infatti, l’Italia potrebbe colmare, almeno in parte, la distanza che la separa dagli altri Paesi europei sul fronte delle retribuzioni.
Partiamo, come sempre dai numeri. Ocse e Istat hanno più volte evidenziato la poco esaltante dinamica dei salari nel nostro Paese. Un dato su tutti: tra 2013 e 2023 gli stipendi sono cresciuti di poco meno del 5% a fronte di un indice armonizzato dei prezzi salito di oltre 17 punti, con la conseguenza che le retribuzioni lorde hanno perso quattro punti e mezzo di potere d’acquisto. La situazione è ancora più allarmante se confrontata con quella dei nostri partner europei. La differenza tra i salari italiani e quelli francesi era di 3.153 euro nel 2000, ma nel 2023 è salita fino a quota 11.142. Il gap tra le retribuzioni nel nostro Paese e quelle in Germania, invece, è passata da 8.529 a 15.851 nello stesso arco temporale. Gli stipendi italiani restano superiori a quelli spagnoli, ma in 23 anni la differenza si è notevolmente assottigliata passando da 3.103 a 506 euro.
Ma che cosa c’è alla base di questo gap? Di sicuro politiche salariali inefficaci, bassa produttività e ridotte dimensioni delle imprese, ma anche l’insufficiente grado di conoscenza tecnologica che in Italia, soprattutto al Sud, è inferiore a quello che si riscontra negli altri Paesi europei. E questa differenza è plasticamente rappresentata dai brevetti che rappresentano la capacità del sistema produttivo di difendersi dalla concorrenza, garantiscono i progetti futuri delle imprese e sono tipici di settori ad alto valore aggiunto e livello di conoscenza. La riflessione sul tema, dunque, non può prescindere dall’analisi del posizionamento tecnologico nazionale attraverso i dati dell’European Patent Office. I principali settori di brevettazione sono tecnologia informatica, macchinari elettrici, apparecchiature ed energia, comunicazione digitale, tecnologia medica, trasporti, misurazione, biotecnologia, prodotti farmaceutici, altre macchine speciali e chimica fine organica. Al netto di trasporti e macchinari, dove comunque non eccelle, l’Italia è assente negli altri settori, inclusi quelli fondamentali per la transizione ecologica e la digitalizzazione che sono caratterizzati da elevati tassi di crescita in termini di valore aggiunto, salari, profitti e conoscenza incorporata. E qui tornano utili, ancora una volta, i numeri. La Germania detiene il 60% dei brevetti europei, la Francia il 6.9, l’Olanda il 5.6 e l’Italia solo il 5.3.
Questa de-specializzazione ha influito negativamente sulla crescita economica e, secondo le stime più attendibili, è costata al Paese almeno un punto di pil ogni anno, con conseguenze dirette sulla povertà e sulla stagnazione salariale. Ecco perché denunciare il dramma del lavoro povero non basta più. Bisogna trovare soluzioni strutturali che vadano oltre il pur necessario taglio del cuneo fiscale e il rinnovo dei contratti collettivi scaduti ormai da decenni. E quella soluzione non può essere che una serie di grandi riforme che valorizzino il genio italiano, stimolando gli investimenti in ricerca e sviluppo e la capacità di brevettazione. È indispensabile Serve una visione di lungo periodo, che tenga insieme contrattazione, investimenti pubblici e privati, formazione e tecnologia. Solo così il lavoro potrà tornare a essere una leva di crescita e non una trappola di povertà.
Bentornato,
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