L’annuncio di Donald Trump sui nuovi dazi verso i Paesi stranieri – con un colpo diretto al cuore dell’Europa e quindi dell’Italia – non è solo una notizia di politica estera. È uno spartiacque. Un segnale potente che rischia di scuotere (e forse ribaltare) l’intero impianto su cui si regge l’economia globale. E che l’Italia non può ignorare.
Il presidente americano ha parlato chiaro: dazi del 20% verso l’Unione europea, del 54% verso la Cina, altri numeri ancora per altri Paesi. E ha giustificato questa scelta con una logica tanto semplice quanto fuorviante: il surplus commerciale che un Paese registra nei confronti degli Stati Uniti viene considerato, di fatto, come un “dazio nascosto” contro l’America. Una semplificazione che fa sorridere – o rabbrividire – chiunque abbia un minimo di competenza economica.
Eppure, al di là del metodo discutibile, l’impatto di questa decisione è reale. L’Italia rischia seriamente di vedere compromesse le sue esportazioni in uno dei mercati più importanti al mondo. E con esse, rischia di veder crollare la tenuta di intere filiere produttive, in particolare nel manifatturiero, nell’agroalimentare e nella meccanica di precisione.
E allora la domanda è: l’Italia è pronta? La risposta, purtroppo, è no. Non lo è perché, ancora una volta, la politica si divide in tifoserie: da una parte chi giustifica ogni mossa di Trump per ideologia, dall’altra chi la condanna a prescindere, sempre per ideologia. Ma qui non c’è da tifare, c’è da proteggere il lavoro degli italiani. E da farlo con lucidità.
Non è il momento delle bandiere. È il momento della strategia. Una strategia che deve essere chiara, concreta e soprattutto tempestiva. Perché le imprese non possono aspettare. Chi lavora ogni giorno per esportare qualità italiana nel mondo, non può permettersi di aspettare che Bruxelles trovi un accordo o che Roma trovi una linea. Serve un piano nazionale di difesa industriale, con misure urgenti di sostegno all’export, accesso facilitato al credito, riduzione dei costi energetici e rilancio del Made in Italy come asset strategico.
Ma c’è di più. Perché ogni crisi – lo insegna la storia – porta con sé anche una possibilità. Quella di ripensare i flussi commerciali, di stringere nuove alleanze, di aprire spazi dove finora non abbiamo avuto il coraggio (o la visione) di investire. L’Italia può – e deve – guardare oltre il vecchio schema Usa-Europa. Deve aprirsi con coraggio all’Africa, all’India, all’Asia mediterranea. Deve costruire un nuovo asse strategico che abbia il Mediterraneo come centro, non come confine. E in questo scenario, il Sud Italia può diventare il perno di un rilancio produttivo. Perché ha infrastrutture da potenziare, giovani da formare, imprese da accompagnare. Non più periferia da assistere, ma cuore da cui ripartire.
Sì, la mossa di Trump può fare paura. Ma può anche diventare la scossa di cui avevamo bisogno per uscire dall’immobilismo e ridare senso alla parola “visione”. Non si tratta solo di reagire. Si tratta di scegliere: stare al passo del mondo o subirne i colpi.
Il tempo delle analisi è finito. È arrivato il tempo delle decisioni. E l’Italia – tutta – deve decidere da che parte stare: quella della passività o quella del protagonismo. Noi, da parte nostra, abbiamo già scelto: con le imprese, con i territori, con il lavoro vero.
Bentornato,
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