A prescindere dal risultato, cioè dal mancato raggiungimento del quorum e dalla mancata abrogazione delle norme contenute nel Jobs Act, il referendum dell’8 e 9 giugno scorsi offre alla politica italiana una grance chance: quella di avviare un confronto serio sulla qualità del lavoro nel nostro Paese, tema che sembra sparito dall’agenda di partiti e (talvolta) persino dei sindacati e che invece meriterebbe di rimanere al centro del dibattito.
Il referendum ha segnato una sorta di resa dei conti, all’interno della sinistra italiana, sulla cosiddetta “flexsecurity”, cioè su quelle misure che puntano a incrementare l’occupabilità delle persone conciliando l’aumento della flessibilità dei rapporti di lavoro con le tutele in caso di perdita del posto. Sebbene di matrice socialdemocratica, queste riforme, diffusesi negli anni Duemila e rappresentate in Italia dal Libro bianco sul mercato del lavoro di Marco Biagi e poi dal Jobs Act del governo Renzi, hanno incontrato l’opposizione della Cgil e della sinistra antagonista. Che, anche giustamente, hanno evidenziato come quelle politiche non abbiano fatto altro che aumentare la precarietà del lavoro senza però contribuire a una crescita significativa dell’occupazione, della produttività delle imprese e dei salari dei dipendenti. A quella stagione ne è seguita un’altra, cioè quella attuale, in cui il numero degli occupati, a cominciare da quelli a tempo indeterminato, risulta in costante ascesa. E ciò è avvenuto in assenza di particolari interventi normativi, sotto la spinta del contemporaneo calo della popolazione in età da lavoro e della difficoltà delle imprese nel trovare personale con caratteristiche coerenti con i profili professionali richiesti. Questa tendenza, come ha osservato il presidente dell’Inapp Natale Forlani, è destinata a diventare ancora più evidente nei prossimi anni, alla luce sia dell’esodo di lavoratori anziani che andranno in pensione e non potranno essere compensati dai giovani sia della crescente domanda di nuove competenze in ambito tecnologico che è condizione necessaria per gli investimenti da parte delle imprese.
E proprio la domanda di lavoro superiore al numero dei lavoratori disponibili e il fabbisogno di investimenti formativi sono il presupposto indispensabile per il miglioramento della qualità e della quantità del lavoro. Se questi obiettivi saranno centrati, però, non dipenderà soltanto dalle leggi, ma soprattutto dalla qualità delle scelte che istituzioni e parti sociali faranno per utilizzare le risorse finanziarie, tecnologiche e umane disponibili. Dopo anni in cui l’intermediazione dello Stato nella formazione dei redditi disponibili non ha fatto altro che alimentare la politicizzazione del confronto sociale, offrendo un insperato assist alle forze politiche populiste e quindi all’uso assistenziale del denaro pubblico, è ora che la ricerca delle strategie per migliorare qualità e quantità del lavoro torni nell’ambito del confronto tra le rappresentanze confederali. In questo senso, il referendum offre a sindacati e imprese un’occasione di portata storica per far sì che il Paese, a cominciare dalla sua parte tradizionalmente più depressa e cioè il Sud, non si faccia cogliere impreparato da quella che si annuncia come una fase di profonda trasformazione per il mondo del lavoro e per il tessuto economico e sociale.
Bentornato,
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