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Addio James, voce nera del Sud più orgoglioso

L’ultima volta che l’ho visto era un pomeriggio di luglio, dopo pranzo, in un bar di Giovinazzo affacciato sul porto. Il sole batteva sui tavolini di ferro e sul mare batteva il maestrale. James Senese beveva un caffè, il sax appoggiato accanto alla sedia come un cane fedele. Parlava piano, guardando verso l’acqua. Disse soltanto: «Fratè, mo’ suoniamo pure al vento». Da allora ci siamo sentiti solo una volta al telefono. «Uè, è ’o giornalista buono?», mi diceva con quella voce ruvida, familiare.

Bastavano due minuti con lui per capire che dietro la durezza c’era una fame antica, di rispetto, di ascolto. C’è una foto che riassume tutto. James è in piedi, sotto il murale che lo ritrae nel suo quartiere, Miano. Tiene il sax come si tiene un bastone, o una croce. Guarda l’obiettivo con quella miscela di dolcezza e sfida che aveva in ogni intervista.

Quando gli chiesi se avesse mai pensato di lasciare Napoli, rispose: «Qualche volta sì. Poi ho capito che qui ci stava la mia anima. L’America mi avrebbe fatto grande, ma mi avrebbe tolto tutto». Jamese è morto ieri, a ottant’anni. Ma la sua musica, come certe ferite, non muore mai. Aveva il tono di chi è nato nel dopoguerra e non si è mai davvero ripreso: un figlio di padre afroamericano e madre napoletana, cresciuto tra i vicoli e i pregiudizi. Lì dove la miseria non era solo economica ma anche sentimentale. Da quel fango ha tirato fuori un suono. Ruvido, caldo, disperato. Quando parlava di improvvisazione, diceva che era «una questione d’anima». Non parlava per immagine.

Per lui l’anima era un fatto fisico: una vibrazione nei polmoni, nel metallo del sax, nel sangue. «La musica è di chi è più forte nei sentimenti», spiegava. Non c’era nulla di intellettuale nel suo modo di suonare. Era un gesto di sopravvivenza, come respirare. James aveva inventato, quasi senza accorgersene, il Neapolitan Power: una parola d’orgoglio più che un genere. Con i Napoli Centrale aveva fuso il jazz nero con la lingua della strada. Quella di chi bestemmia, ride, sopravvive. «Quando la nostra napoletanità ha iniziato ad arrivare dappertutto — ricordava — ha dato fastidio a molti. Napoli è maestosa, e la maestosità fa paura». A sentirlo, c’era in lui qualcosa di antico, come se appartenesse più a Coltrane che ai suoi contemporanei. Ma con un dolore tutto napoletano: quello di chi ama una città che ti consuma mentre ti applaude.

Era stato amico di Pino Daniele, «un fratello» lo chiamava, anche se aggiungeva che la napoletanità di Pino dava fastidio a molti. «Non esiste un nuovo James Senese: se ci fosse, lo prenderei subito con me». Rideva, con una punta d’orgoglio nello sguardo. Quando gli chiesi il suo primo ricordo legato al sax, mi raccontò che aveva cominciato a suonare a quindici anni. «Avevo bisogno di una guida», disse. Ma quella guida, in fondo, non l’ha mai trovata. Si è costruito da solo: giorno dopo giorno, concerto dopo concerto. La sua religione era la disciplina. «Ogni volta che salgo sul palco, ci metto l’anima. È così che prego». Napoli l’ha amato e respinto, come fa con i suoi figli migliori. Ma lui non se n’è mai andato. Diceva che i napoletani veri non emigrano, sprofondano. E nel suo caso è vero: più restava, più la città entrava nella sua musica. Ora quella musica gli sopravvive. Passa tra i vicoli come una corrente calda, s’infila nelle finestre, nei bar, nei finestrini dei motorini.

Non so se James credesse in Dio. Non gliel’ho mai chiesto Ma so che credeva in una forza redentrice. In un mondo che correva verso la superficie, lui restava nel profondo. Un uomo che non sapeva fingere, e che per questo, quando suonava, sembrava dire sempre la verità. Che era il più grande di tutti, lo sapeva, e non si vergognava a dirlo.

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