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Una “robot tax” per evitare che l’AI faccia arricchire solo poche persone

Fermati. Leggi queste righe e ascolta il rumore di fondo che già senti intorno a te. Non è il suono delle macchine che avanzano con la rivoluzione industriale. Non è il ticchettio delle tastiere nella corsa digitale. È qualcosa di diverso, più silenzioso, ma infinitamente più potente. È l’Intelligenza Artificiale, ed è già ovunque.

Non è un futuro lontano, non è un’ipotesi teorica. È adesso. È nei call center che parlano senza umanità, nei software che fanno diagnosi migliori di un medico, nelle chat che rispondono ai clienti prima che un impiegato possa accorgersi di loro. È nelle aziende che licenziano perché “un algoritmo può fare meglio e più velocemente”. È nei lavori che spariscono senza che ce ne accorgiamo.

Questa rivoluzione è diversa da tutte le altre. Perché? Perché stavolta non sta sostituendo solo la forza fisica, come fece l’industria con gli operai. Sta sostituendo il pensiero. Sta prendendo il posto di chi scrive, di chi analizza, di chi decide.

Siamo cresciuti con un’idea chiara: studia, impara una professione, acquisisci competenze e sarai al sicuro. Ma chi oggi si sente al sicuro? Gli avvocati? Gli architetti? I giornalisti? I consulenti? Per anni ci siamo raccontati che i lavori “intellettuali” sarebbero stati gli ultimi a essere toccati dalla tecnologia. E invece è successo il contrario. Più un lavoro si basa sulla conoscenza, più è a rischio. Perché l’AI non ha bisogno di dormire, non chiede un aumento, non si distrae.

Guardiamoci intorno. Un tempo, conoscere una lingua straniera era una chiave per il successo. Oggi, con un’app, chiunque può parlare in tempo reale in cinese o arabo senza aver studiato una parola. Allora, che valore ha ancora passare anni sui libri per imparare ciò che un software può replicare in un secondo? E non è solo una questione di impiego. È una questione di ricchezza e potere. Chi controlla l’AI avrà tutto. Chi non la capisce, non avrà niente.

Il tempo per le chiacchiere è finito. Non possiamo più permetterci di restare fermi a guardare. Servono tre scelte chiare, immediate, non negoziabili. La prima: non possiamo più basare il nostro valore su ciò che sappiamo. L’AI saprà sempre più di noi. Dobbiamo puntare su ciò che un algoritmo non può replicare: pensiero critico, creatività, leadership, capacità di costruire relazioni umane. La seconda scelta: se le aziende aumentano i profitti eliminando il lavoro umano, serve una nuova politica fiscale. Una “robot tax”, un meccanismo che garantisca che i guadagni derivati dall’automazione non restino solo nelle mani di pochi. Altrimenti, tra dieci anni, non parleremo solo di disoccupazione. Parleremo di povertà diffusa, di tensioni sociali, di un mondo in cui la ricchezza sarà ancora più concentrata nelle mani di chi possiede le tecnologie. La terza scelta: I nostri figli non devono più essere educati a memorizzare informazioni. Devono essere educati a pensare, adattarsi, innovare. Il problema non è l’AI. Il problema è il sistema educativo che non la capisce e non la integra. Se continuiamo a insegnare con metodi vecchi, creeremo generazioni di disoccupati.

Abbiamo poco tempo. Meno di quanto pensiamo. Chi oggi si illude di essere al sicuro, domani sarà il primo a essere colpito. Questa rivoluzione non aspetta. Possiamo esserne vittime o protagonisti. Possiamo subirla o governarla. Possiamo svegliarci adesso, o svegliarci quando sarà troppo tardi. Da che parte vogliamo stare?

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