Diciamoci la verità: ogni anno si ripete la stessa storia. Con l’estate torna il caldo, le temperature sono sempre più insostenibili, le Regioni procedono in ordine sparso firmando ordinanze che vietano il lavoro all’aperto in alcune fasce orarie e per determinati settori produttivi. La novità del 2025 è la sigla del protocollo quadro sulle emergenze climatiche estreme da parte dei sindacati e delle associazioni datoriali.
A ben vedere, però, il documento sembra più che altro un modo per calciare la palla in tribuna visto che, pur segnando un importante cambio di paradigma in materia, non modifica una sola norma di legge come invece sarebbe stato opportuno fare (e non da ieri). In buona sostanza, il protocollo rafforza l’obbligo per i datori di lavoro di controllare quotidianamente il bollettino climatico pubblicato dal Ministero della Salute, di aggiornare la valutazione dei rischi collegati al meteo, di prevedere aree d’ombra, rifornimenti d’acqua e sali minerali, turni flessibili e dispositivi di protezione individuali specifici per il caldo.
La novità più significativa riguarda l’introduzione di ammortizzatori sociali “climatici”: si ribadisce la possibilità di fare ricorso alla Cigo, per quanto riguarda l’industria, e alla Cisoa, per quanto invece concerne l’agricoltura, quando si superano i 35 gradi reali o percepiti.
Soprattutto, però, il nuovo protocollo quadro sulle emergenze climatiche estreme stabilisce che i giorni pagati per emergenza climatica non rientrano nel plafond delle 52 settimane biennali. Si tratta di una nota positiva: adesso il tempo perso a causa di un’allerta meteo certificata non pesa sul monte ore di cassa integrazione né sul bilancio dell’azienda; in più, è ragionevole ritenere che i costi sociali di infortuni e malattie da calore, stimati in mezzo miliardo l’anno, caleranno sensibilmente.
Il problema, tuttavia, sta nell’approccio che il protocollo rivela. Il clima, infatti, è diventato un problema col quale le imprese devono quotidianamente fare i conti. E che, di conseguenza, produce effetti sulla qualità del lavoro e della vita del personale. Parliamo di un problema strutturale che, tuttavia, politica, associazioni datoriali e anche i sindacati si ostinano a considerare come una mera emergenza alla quale rispondere con il solito protocollo d’intesa. Ma a una sfida strutturale come quella climatica bisogna rispondere necessariamente con una misura strutturale, cioè con una legge organica che agisca su una serie di aspetti.
Qualche esempio? Orari modulati sul micro-clima reale, non più sul tradizionale orario 8-17; piani urbani del lavoro capaci di far convivere logistica, turismo e quiete senza penalizzare i lavoratori; tutele estese agli artigiani e alle micro-imprese edili, attualmente esclusi; riordino della “flessibilità”, in considerazione del fatto che il clima mutato impone reti d’impresa robuste e in grado di investire in prevenzione e innovazione tecnologica. In più, sarebbe il caso di valutare la possibilità di adottare altre misure.
In Spagna, per esempio, nel 2024 è stato istituito un congedo climatico di quattro giorni retribuiti in caso di eventi meteo estremi, senza passare per la cig: un modello che potrebbe essere replicato anche in Italia. Prima ancora, però, sarebbe il caso di armonizzare i provvedimenti adottati dalle Regioni che continuano a procedere in ordine sparso: allo stato attuale undici amministrazioni, a cominciare da quelle di Puglia e Basilicata, hanno vietato il lavoro nelle ore più calde della giornata, ma sarebbe il caso di dare a questa “tela” locale una “cornice” nazionale in modo tale da assicurare garanzie uniformi alle imprese e ai lavoratori.
Insomma, il clima non è più quello di ieri e rischia di incidere pesantemente sulle dinamiche lavorative. Proprio per questo è indispensabile un quadro legislativo che integri ambiente, economia e diritto del lavoro, arrestando l’insopportabile proliferare di circolari, deroghe e bonus. Soltanto in questo modo sarà possibile garantire produttività e salute in un Paese che ormai deve fare i conti anche con il “clima pazzo”.