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Tutelare i vulnerabili è simbolo di democrazia

Nei luoghi di cura, spesso relegati ai margini della città e confinati in corridoi asettici, si respira un silenzio che non è mai solo assenza di rumore. È il silenzio della fragilità, un silenzio che parla, che chiede ascolto, che ricorda quanto la vita sia fragile eppure ostinatamente resistente. È lì, in quegli spazi dove si intrecciano sofferenza e attesa, che si manifesta una verità dimenticata: ogni esistenza porta con sé un tratto unico, irripetibile, che non può essere sacrificato sull’altare dell’efficienza o della normalizzazione. Il sociologo e filosofo Theodor W. Adorno ammoniva che la civiltà autentica si misura dal modo in cui tratta i suoi membri più vulnerabili.

In un mondo dominato dalla logica della produzione e del consumo, Adorno scorgeva il pericolo di ridurre l’essere umano a semplice ingranaggio di un sistema, a numero tra numeri, a “materiale umano” destinato a funzioni stabilite. È in questo orizzonte che diventa decisivo recuperare il senso della unicità dell’individuo: non un’astrazione, ma un atto concreto di resistenza culturale. Su questo terreno si innesta la voce, tuttora dirompente, di Franco Basaglia. La sua lotta contro i manicomi non fu soltanto una riforma sanitaria: fu una rivoluzione dello sguardo. Nei manicomi Basaglia vedeva non semplicemente strutture fatiscenti, ma simboli di un potere che esclude, che confina, che etichetta. Liberare i malati psichiatrici significava liberare la società intera da una menzogna: che la fragilità potesse essere rinchiusa, nascosta, neutralizzata.

Oggi, a decenni di distanza, quella lezione torna a interrogare con urgenza. Il rischio non è più quello del manicomio come edificio, ma di un nuovo manicomio diffuso, fatto di pratiche quotidiane di esclusione, di marginalità invisibili, di spazi di cura trasformati in luoghi di semplice contenimento. La tremenda attualità di Basaglia è tutta qui: ricordarci che la cura non è custodia, non è riduzione della vita a diagnosi, ma restituzione di dignità e di parola.

Nei corridoi della fragilità, dunque, non si aggirano soltanto sofferenze: circola una domanda radicale sul senso del vivere insieme. Che cosa significa accogliere davvero l’altro, nella sua vulnerabilità? Come possiamo costruire comunità che non temano la debolezza, ma la riconoscano come parte essenziale della condizione umana?

La fragilità non è una parentesi da chiudere, non è una devianza da correggere: è un frammento di verità. È ciò che ci ricorda che non siamo onnipotenti, che la vita non si lascia addomesticare del tutto, che il senso dell’umano si gioca nella capacità di prendersi cura. Adorno e Basaglia, ciascuno a suo modo, ci invitano a non dimenticare questa evidenza: l’umanità non si misura dal potere che esercita, ma dall’attenzione che rivolge a chi resta indietro, a chi non rientra nelle logiche dominanti, a chi non può competere.

Nei corridoi della fragilità, allora, non abita la fine: vi si nasconde una possibilità di inizio. Un respiro che ci interpella, che ci chiede di rallentare, di ascoltare, di costruire spazi di cura che siano davvero luoghi di vita. È da lì che può nascere un nuovo umanesimo: non dalle vette dell’efficienza, ma dalle pieghe della debolezza; non dall’illusione della forza, ma dalla dignità silenziosa di chi, pur nella fragilità, continua a respirare, a chiedere, a vivere.

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